Melanconia del Mostro: la teoria dei quattro umori

Ho scoperto la teoria umorale, il fondamento della medicina occidentale da Ippocrate al XIX secolo, mentre studiavo i lupi mannari. Il frutto di quello studio si trova nell’articolo “L’Anima del Licantropo“, dove ne ho parlato anche con gli amici lettori. Il frutto più interessante di quest’albero è indubbiamente la lunga tradizione che si è sviluppata intorno a uno di questi quattro umori, la bile nera, chiamata anche atrabile e, soprattutto, melancolia. La melancolia è quella che ci mette in connessione con i mostri, in quanto la licantropia è stata considerata, dall’antichità fino a tempi molto recenti, proprio come una forma di melancolia, ma chiama in causa anche un altro personaggio con cui ci siamo intrattenuti molte volte, Saturno, dio del tempo e dell’età dell’oro, considerato anche, indovinate un po’, il dio della malinconia.

Questa teoria, costituita intorno al fatto che tutti gli stati fisici e mentali degli esseri umani siano dovuti alle interazioni di quattro sostanze presenti nel nostro corpo, ovvero bile nera, bile gialla, flegma e sangue, e che naturalmente è stata superata sotto ogni aspetto dalle scoperte compiute in batteriologia, psicologia, e tutte le altre scienze moderne che si occupano dell’uomo, svolgeva, originariamente, una funzione che era anche filosofica, perché presupponeva che ognuna delle sostanze derivasse da uno dei quattro elementi, e fosse aumentata dalla stagione corrispondente a quell’elemento, e diminuita da quella opposta; in questo modo, presupponeva un’unità fra il microcosmo umano e il macrocosmo dell’universo, poiché entrambi erano costituiti dalle stesse cose. E questa, in fondo, è una cosa che sappiamo essere vera: gli elementi delle rocce, degli alberi e delle stelle sono le stesse che compongono i nostri organi. Conosciamo certamente bene la composizione del nostro corpo e il modo in cui si misura con la realtà, ma credo che non si possa dire lo stesso della nostra anima. Per quella, forse, le intuizioni degli antichi potrebbero ancora aiutarci.

“Abbazia nel querceto” di Caspar David Friedrich, 1809-1810, Altenationalgalerie, Berlino.

Origini

La teoria dei quattro umori affonda le sue radici nella complessa simbologia elaborata in Grecia dai filosofi della scuola pitagorica nel VI secolo a.C., che, alla ricerca di soluzioni per mettere in relazione le infinite parti del mondo, concepirono numerosi sistemi di concetti, come quello degli elementi e delle stagioni. Questi sistemi, che sono rimasti inalterati per migliaia di anni e fanno ancora parte della nostra cultura, erano molto spesso tetradici, in quanto, presso la loro scuola, era il numero considerato perfetto. I sistemi di questo tipo servivano a creare rapporti tra le cose: una stagione è la stagione di un dato elemento, le corrisponde un’età della vita, e le analogie potrebbero continuare. La primavera è la stagione dell’aria e dell’infanzia, l’estate del fuoco e della giovinezza, l’autunno della terra e della maturità, l’inverno dell’acqua e dell’anzianità. [1] Tra i pitagorici, Alcmeone di Crotone (VI-V secolo), aveva designato come aspetti qualificativi di tutte le sostanze le quattro qualità di calore, freddo, secchezza e umidità, e definito il concetto di salute, nell’uomo, come condizione in cui tutte le componenti si trovavano nel giusto rapporto quantitativo (isonomia, cioè “legge uguale”), senza che nessuna sopravanzasse; mentre Empedocle da Agrigento (V secolo), il filosofo che perfezionò la dottrina dei quattro elementi, che chiamava ριζώματα (rizómata), cioè ‘radici’, sviluppò il concetto di crasi, ovvero la possibilità che gli elementi, combinandosi in diverse modalità e percentuali, producessero esiti differenti.[2] La dottrina di Empedocle stabilisce così una corrispondenza tra l’uomo e l’universo quali realtà microcosmica e macrocosmica fondate sulle medesime premesse sustanziali, e sviluppa così la concezione di ἰσονομία (isonomía), cioè di pari misura di tutte le componenti, che, anche nell’uomo, producono diverse conformazioni, diverse tipologie di fisico e di carattere, provocando malessere in caso di eccesso, o acrasia.[3] I pitagorici, però, non inventarono gli umori.

Busto di Ippocrate in un’incisione di Paulus Pontius, artista della bottega di Rubens, 1638, National Library of Medicine.

La prima opera in cui se ne trovi menzione è lo scritto pseudo-ippocrateo “Della natura dell’uomo” (Περὶ φύσιος ἀνθρώπου), attribuito dagli antichi al genero di Ippocrate, Polibo, ma in realtà di autore ignoto, e risalente al IV secolo. Un trattato di medicina in senso stretto, senza speculazioni filosofiche, che spiega quali siano gli umori, in che rapporto siano legati, come provochino le malattie e come esse si possano curare riducendo gli eccessi umorali attraverso il salasso; eppure, quest’opera compie il passaggio necessario per assicurare un futuro anche alla valenza “panteistica” di questo pensiero, ovvero, l’individuare la presenza dei quattro elementi nelle sostanze presenti nel corpo umano. Alla bile (χολή) e il flegma (φλέγμα), ovvero il catarro, già noti come umori responsabili di alcune malattie, lo pseudo-Ippocrate aggiunge per primo il sangue, in quanto sostanza preminente del corpo, e distingue la bile in bile gialla (ξανθη χολή), o rossa, quella che tuttora viene chiamata con lo stesso nome, e bile nera (μέλαινα χολή), termine che, precedentemente, designava un tipo di coagulo del sangue.

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Sangue.
Healthy Bile: A Functional Medicine, Ayurveda, and TCM Integrated Approach  | Deanna Minich
Bile gialla.

L’influenza delle stagioni sugli umori fa sì che in autunno aumenti la bile nera e provochi malattie di tipo melancolico, che terminano in primavera, quando la bile nera non viene più alimentata e viene invece nutrito il sangue, che provoca invece un accrescimento della gioia e della vitalità, e così avviene anche per l’insorgere del flegma in inverno e della collera in estate, e delle rispettive estinzioni nella stagione opposta.[5] Si è detto che i pitagorici avessero stabilito un legame fra le stagioni e le età della vita: nella tradizione, il sangue è l’umore dell’infanzia e della giovinezza, quando l’essere umano è in crescita e ha fame di vita, mentre la bile gialla accompagna la prima maturità, caratterizzata da un temperamento collerico, la bile nera segna il tramonto della vita, il periodo in cui si prende nostalgicamente cognizione del tempo trascorso, e il flegma alla vecchiaia, nella sua pacifica lentezza.[6]

Bile nera.
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Flegma.

la melancolia e la genialità

La teoria umorale così esposta comportava però delle difficoltà, giacché presupponeva che la perfetta crasi fra gli umori generasse individui dalla salute incrollabile, immuni agli aumenti di umore stagionali, e l’esperienza empirica, che peraltro conosceva gli umori, fatta eccezione del sangue, come sostanze nocive, escrezioni manifeste nella sintomatologia delle malattie, ma non dello stato di salute, dimostrava che individui che non si ammalassero mai erano piuttosto rari.[7] Questo, con il tempo, provocò la reinterpretazione della teoria degli umori come di una teoria dei temperamenti, di inclinazioni cioè maggiormente rivolte verso la predominanza di un umore, che, naturalmente, si estrinsecava anche in assetti del carattere. Esistevano dunque il sanguigno, il collerico, il melancolico e il flemmatico.[8] È questo sistema, con minime variazioni (relative principalmente all’equazione fra gli umori e le età) a rimanere fondamento della scienza medica fino all’età moderna.

La Mancha Negra is a mysterious black substance that has oozed from roads  in Caracas, Venezuela which first appeared in 1986. It has caused multiple  car accidents and claimed thousands of lives.

Con la dottrina peripatetica (IV secolo), la teoria dei quattro temperamenti, in particolare relativamente alla melancolia, che possedeva un’accezione negativa anche prima della trattazione ippocratea, attraversa un significativo cambiamento, le cui cause possono ricondursi all’interesse di Platone e dei tragediografi per il tema della follia.[9] Se, da una parte, l’idea della presenza di un umore nero nel corpo dell’uomo si fa carico di associazioni sinistre con la sfera del notturno e dell’infero, fungendo da spiegazione per qualunque forma di delirio, e legandosi paretimologicamente alla sfera semantica della “mania”,[10] dall’altra si osserva, nell’approccio analitico e scientifico con cui i filosofi indagano la cultura delle epoche precedente, il suo ricorrere nelle vicende dei grandi eroi della tradizione mitologica, da Eracle ad Aiace e a Bellerofonte.[11] È a partire da questo contesto che la melancolia assume un’altra valenza, cui resterà connessa fino alla contemporaneità: l’individuazione, all’interno dell’ampio spettro di sintomatologie in cui si estrinseca, di uno stato di elezione della mente che produce grandi individualità, non solo nel caso degli eroi, ma anche dei pensatori e dei filosofi stessi, come attesta, in particolare, la tradizione sulla follia di Democrito.[12]

Busto di Aristotele, copia romana dell’originale di bronzo di Lisippo, IV secolo a.C., museo nazionale romano di palazzo Altemps, Roma.

Il tema è discusso approfonditamente in  uno dei Problemata aristotelici, XXX,1, la cui attribuzione allo Stagirita non è accertata, ma generalmente ritenuta abbastanza probabile.[13] L’autore, che assimila l’azione della melancolia all’aria e al vino, per la sua dipendenza dalle temperature, che possono determinarne l’azione in direzioni anche opposte, scrive che una misura moderata di melancolia è fisiologica, mentre una quantità eccessiva crea individui fuori dalla norma; se questo eccesso non è mitigato, allora l’individuo è melanconico nel senso patologico, pigro e abulico se la bile nera è troppo fredda, agitato ed estatico se troppo calda, mentre, se la bile viene temperata, diviene una persona eccezionale, per quanto soggetta a tutti i rischi dei melancolici, quali epilessia, paralisi, o anche l’eccessiva fiducia in sé stessi.[14]

Il problema pone anche le basi di una distinzione più specifica dei tipi di melancolia, poiché, mentre un’alterazione dell’umore stesso dovuta al caldo o al freddo, indotta dalla mancata digestione degli alimenti, è all’origine di alcune patologie, paralisi, ulcera, epilessia, fobia e depressione, un eccesso della quantità di umore nel corpo come condizione naturale, induce un temperamento che sarà sempre melancolico, e mentre sia il tipo melancolico che l’individuo con una preminenza di bile nera possono sperimentare le malattie dovute alla sua alterazione fisiologica, solo nel primo, melancolico “per costituzione”, si manifestano gli attributi del genio, i connotati dell’intelletto fuori dal comune.[15] Tra questi attributi, spicca il possesso di un particolare esercizio della memoria: il melancolico, sempre teso fra stati d’animo opposti, i rischi comportati dagli estremi della bile nera, o, con terminologia moderna, le alterne fasi di mania e depressione che ricorrono in patologie come il disturbo bipolare, ha scarso controllo sul proprio stato emotivo, condotto piuttosto dai suoi stati incostanti a cercare il piacere dei sensi o della mente per lenire la propria inquietudine (al melancolico vengono imputati i vizi di avidità, gola e, particolarmente, lussuria), e non riesce a condurre la propria memoria dove vorrebbe. Questo accade perché la sua memoria produce phantasmata, immagini mentali molto intense, che si impongono con violenza nel suo pensiero, sia ostacolandone il libero esercizio che forzandolo verso l’oggetto da cui sono scaturite.[16]

Galeno e tarda antichità

Galeno, incisione di Georg P. Busch, XVIII secolo.

Nei secoli successivi, la teoria umorale interessa gli autori principalmente nella forma di teoria dei quattro temperamenti, e assume valenze più strettamente fisiognomiche, volte a identificare i caratteri fisici corrispondenti a ciascuna preminenza umorale. Inoltre, la lettura aristotelica, secondo la quale la bile nera provoca una vasta gamma di conseguenze in base alla quantità e alla temperatura, viene estesa agli altri tre umori. Galeno (II secolo d.C.), il principale interprete della teoria dei quattro umori nell’antichità, che in gran parte continua l’opera del medico Rufo di Efeso (I secolo) stabilisce, nel suo commentario al Περὶ φύσιος ἀνθρώπου e nello scritto Περὶ κράσεων, un preciso sistema di richiamo fra umori, temperamenti e caratteri fisici; qui gli umori hanno caratteristiche più strettamente legate al loro elemento corrispondente, sicché il sangue rende allegri e semplici fino alla stoltezza, la bile gialla acuti e intelligenti, mentre la bile nera concede la fermezza e la costanza propri dell’elemento della terra, in contrasto con la lezione sulle costanti alterazioni psichiche del melancolico.[17] Nelle elaborazioni successive, il sangue, per la sua prominenza nel corpo e la natura distinta già osservata in precedenza, assume un rilievo sempre maggiore rispetto agli altri umori, e il tipo sanguigno va sempre più a coincidere con quello che viene considerato l’effettivo modello salutare, mentre gli altri umori provocano solo condizioni di malessere.[18] Ed è nell’arco di questo periodo che si compie il definitivo affrancamento dei tipi umorali dal concetto di patologia, sicché essi divengono i tipi caratteriali e fisici cui ricondurre lo stato di salute “normale” di tutti gli individui, sia pure considerando sempre preferibile il tipo sanguigno.[19]

A Galeno si deve anche il perfezionamento della teoria della localizzazione degli spiriti, già elaborata da Platone e Aristotele: impiegando la terminologia adottata dai maestri, Galeno distingue l’anima razionale, l’anima spirituale, e l’anima appetitiva, collocando la loro sede in organi precisi, cervello, cuore e fegato. La prima è responsabile delle funzioni cognitive e intellettive, la seconda di quelle emozionali e degli stati d’animo, la terza di quelle vitali e organiche. Ad animarle due pneumata, uno vitale, nel sistema arteriale, e uno psichico, nel sistema nervoso. Il tipo melancolico, peraltro, rimane sempre legato alla doppia accezione di tipo umorale e condizione eccezionale dell’intelletto, ma, in merito alla prima, la sua connotazione è sempre sottilmente negativa, associata a uno stato salutare precario e a tratti fisici sgradevoli.

Melancolia e Licantropia

Abbiamo discusso del legame fra la melancolia e la licantropia in “L’Anima del Licantropo“. Ripropongo l’argomento in un contesto nel quale abbiamo compreso meglio il discorso umorale e la relazione fra umori e stagioni. A quanto ci dice “Saturno e la Melanconia”, che però non approfondisce minimamente il tema, l’idea della bile nera aveva assunto già in epoca aristotelica dei connotati cupi, e già allora venivano ricondotti ad essa stati di follia di carattere “necrofilo”. Nel II secolo d.C., un medico greco, Marcello di Side, postulando una malattia “lupina” sulla base di quelle storie popolari e quei riferimenti colti alla lyssa e a forme di follia animalesca di vario tipo, la inserisce nel quadro della medicina classica, all’interno di un poema del quale ci restano solo due frammenti, uno a proposito delle cure derivate dai pesci, l’altro, intitolato Περὶ Λυκανθρώπου (“Perì Lykanthròpoy”), sulla licantropia. Il testo è stato poi reso in prosa e conservato da Aezio di Amida (VI secolo) nei Βιβλία ἰατρικὰ ἑκκαίδεκα (“Biblìa iatrikà ekkàideka”, “Sedici libri di medicina”), ed è in quella versione che ve lo riporto. L’intera concezione della licantropia come malattia melancolica, viva fino a pochi secoli fa, ha preso forma a partire dal brano che riporto di seguito, e i sintomi cui essa viene associata qui sono rimasti più o meno inalterati per tutta la sua durata.

Coloro che sono affetti dal morbo chiamato lupino o canino, escono di casa di notte, in febbraio, e in tutto imitano i lupi o cani; fino all’alba si aggirano fra le tombe, che aprono. Si riconoscono da questi segni: sono pallidi, con espressione ebete, occhi secchi e infossati, e non lacrimano. Hanno la lingua secca, non secernono affatto saliva, e sono assetati. Hanno le tibie esulcerate in modo non medicabile, per le cadute continue, e i morsi dei cani, che cercano carne. È opportuno sapere che questo morbo è un tipo di malinconia; si può trattare quando iniziano i sintomi, incidendo una vena, e togliendo sangue sino allo svenimento, nutrendo il malato con cibi ricchi di buoni succhi, e confortandolo con bagni dolci. Il paziente viene successivamente purgato con coloquintide, come proposto da Rufo, Archigeno o Iusto, e ripetendo il trattamento a intervalli, più volte. Dopo la purga, si deve utilizzare anche la teriaca viperina, e le altre cose che si utilizzano per la melanconia, come si è riferito più sopra. Verso sera, invero, quando il morbo riappare, è bene indurre il sonno con irrigazioni del capo, e con i soliti aromi; si può anche insufflare dell’oppio nelle narici. A volte, si possono anche somministrare dei sonniferi nelle bevande.” (Traduzione da “La malinconia del mannaro”.)

“Il lupo mannaro di Ansbach”, incisione del 1685 ca.

Da quando ho letto questo passo, considero febbraio uno dei periodi migliori dell’anno per parlare di lupi mannari, e specialmente quando arriva la luna piena di quel mese, come oggi. Si noterà che la trattazione di Marcello è problematica, in quanto fissa la patologia licantropica nel periodo invernale, quando, come abbiamo detto, le malattie melancoliche hanno luogo principalmente in autunno, allorché la componente atrabiliare cresce.

Avicenna chiama la licantropia “cucubut”, che è il nome in arabo di un insetto che corre sull’acqua, e che trasmette l’idea di movimenti agitati e caotici. Collega debitamente la malattia lupina all’umore atrabiliare e alle sue alterazioni, dovute all’arsura della bile gialla o della sola bile nera.

«La manifestazione della mania è il demonium lupinum. La mania canina è invero una specie di malinconia, con ira mista a gioia, e a una specie corrotta di inquisitiva ricerca, così com’è in un certo senso la natura dei cani. E sappi che la materia che produce il demonium lupinum è nella sostanza della materia che produce la malinconia: entrambe infatti sono di natura malinconica. E invero, la causa che produce questo demonio è melancolia che è stata riarsa, composta o dalla collera, o dalla malinconia della peggior specie, mentre ciò che produce la malinconia è l’abbondanza di melancolia naturale, o di melancolia riarsa. […] La melancolia non è altro che la mania con ciò che da essa deriva, situata nella parte anteriore del cervello. […] E la malinconia, comporta errore di giudizio, e pensieri malsani, e fobie, ed ebetudine, e appare priva di agitazioni veementi. La mania, invece, è tutta agitazione, e movimento scomposto, e ricerca di qualcosa, e lupinità [lupositas], e comporta un aspetto non assimilabile a quello degli uomini. Piuttosto, la cosa a cui più è simile è l’aspetto dei lupi.» (Citato da Donà 2006)

Come si diceva nell’altro articolo, l’individuazione di un principio unico in una malattia che causa l’alternanza di stati di rabbia esplosiva e crisi depressive anticipa notevolmente la scoperta, nella modernità, dei disturbi della personalità.

“Clinical lycanthropy”, di Igor Levchenko, 2015, da deviantArt.
https://www.deviantart.com/igorlevchenko/art/Clinical-lycanthropy-535572280

Interpreti della teoria umorale nel medioevo

Non tutta la letteratura medica sulla teoria umorale è letta nel Medioevo europeo. Il primo a menzionare gli argomenti dei peripatetici sugli umori nei propri scritti è Alexander Neckham, abate e poeta inglese vissuto tra il XII e il XIII secolo, recuperando anche la teoria della localizzazione degli spiriti nel cervello, individuando nell’anima razionale le funzioni dell’Immaginazione, posta nel ventricolo caldo e secco del cervello: Ragione, nella parte calda e umida, e Memoria, in quella fredda e secca sita nella parte posteriore.[20] Poiché il sangue, l’umore principe, corrisponde al binomio calore e umidità, trova una nuova corrispondenza con la cellula logistica, sede della Ragione, e conseguentemente è al sangue che Neckham associa una preminenza intellettuale, imputando invece alla bile nera la funzione mnemonica.[21] Si interessano all’argomento anche Alberto Magno, che scrive un Liber supra Problemata, oggi perduto, e Pietro d’Abano, che realizza un commentario nel 1310.[22] Alberto Magno, nel Liber de animalibus, distingue la melancolia naturale, considerata una scoria del sangue, e quella non naturale, una conseguenza dei miscugli degli umori, cui viene ascritto il temperamento melancolico che, però, corrisponde soltanto agli aspetti peggiorativi della lettura fisiognomica, tra cui anche l’avidità e la tendenza alla cleptomania: è ormai al sangue che si deve l’intelligenza. Per non negare del tutto quanto affermato dallo Stagirita, Alberto Magno riconduce l’aspetto “eroico” a una forma di melancolia “adusta”, arsa dal sangue e in questo modo come corretta nel produrre una più alta disposizione d’animo.[23] Il commentario di Pietro d’Abano ai Problemata viene ampiamente ignorato, ma esercita un’influenza sulla circolazione universitaria dell’argomento, e intanto il tema della melancolia acquisisce una dimensione più intrinsecamente spirituale, e attraverso la formulazione dei teologi, tra cui Ildegarda di Bingen. La grande mistica tedesca riteneva che la melancolia si fosse originata nell’uomo dopo la caduta di Adamo, per effetto della visione del mondo terreno e della perdita del paradiso.[24]

Brunetto Latini, il grande erudito autore del Tesoretto, ricordato anche come precettore di Dante, espone in versi, e in lingua italiana, la teoria umorale nel libro IX del suo poema didascalico.

“Ancor son quattro umori
Di diversi colori,
Che per la lor cagione
Fanno la complèssione
D’ogne cosa formare,
E sovente mutare:
Sì come l’uomo avanza
Le altre ’n sua possanza.
Che l’una è signorìa
De la malenconia;
La quale è fredda, e secca:
Certo è di larga tecca.

Un’altra n’è ’n podere
Di sangue, al mio parere,
Ch’è caldo, et umoroso,
E fresco, e gïojoso.
E flemma ’n alto monta,
Ch’umido, e freddo pronta,
E par, che sia pesante,
Quell’uomo è più pensante.

Poi la collera viene,
Che caldo, e fuoco tiene;
Che fa l’uomo leggiero,
E presto, e talor fiero.
E queste quattro cose
Così contrarïose,
E tanto disiguali,
In tutti l’animali
Si conviene accordare,
E di lor temperare,
E refrenar ciascuno,
Sì, ch’io li rechi ad uno.
Sì, ch’ogne corpo nato
Ne sia complessïonato .
E sacci, ch’altramente
Non sen farìa nïente.” (vv. 775-810)

Nel frattempo, il contributo più profondo alle teorie mediche dell’antichità viene dato dagli autori arabi, e il maggiore, in merito agli umori, è probabilmente quello di Ishaq Ibn Imran (IX secolo), tradotto in latino da Costantino l’Africano (XI secolo). L’autore, sulla scia delle tradizioni ippocratica e galenica, descrive la melancolia come una condizione fisica, causata dalla bile nera, che provoca ripercussioni sull’anima, dalla paura all’ansia, e che può alterare tutte e tre le virtù ordinative, Immaginazione, Ragione e Memoria.[25] Con l’opera di Avicenna (XI secolo) vengono chiariti molti punti ancora enigmatici: il grande erudito ripristina il sistema dei quattro umori che era stato compromesso dalla derivazione dello stato melancolico dall’alterazione del sangue, di fatto distinguendo quattro tipi di melancolia non naturale, ognuno dei quali può essere provocato dalla combustione dei quattro umori, inclusa la bile nera, che è sempre la forma naturale. In base alla commistione con gli altri umori, può esserci una melancolia gioiosa e allegra (sangue), una violenta e ossessiva che sconfina nella mania (bile gialla) e una inerte e silenziosa (flegma), mentre la sola bile nera determina una melancolia più riflessiva, che non provoca reazione aggressive se non in caso di grave provocazione.[26] Adesso, dunque, lo stato melancolico-depressivo e quello della mania, a volte ricondotti alla stessa radice e a volte distinti come esiti di cause diverse, derivano da due diverse combinazioni degli umori. Averroè (XII secolo) descrive invece come la melancolia possa aggredire le tre facoltà del cervello.[27]

Sembra che gli autori arabi siano stati i primi a suggerire delle associazioni fra gli umori e i pianeti, fondate sul colore. La bile gialla, anzi, rossa, non poteva che essere ricondotta all’iroso Marte, mentre il flegma, di colore chiaro, deriva variamente dalla luna o da Venere, che a sua volta si alterna o si affianca a Giove per il governo del sangue, in quanto sostanza vitale a cui si deve l’energia. La bile nera, infine, viene posta sotto il segno di Saturno, e questo avrà enorme influenza sui suoi sviluppi più tardi.

I Problemata di Aristotele sono tradotti in latino, per mano di Bartolomeo da Messina, solo tra gli anni 50 e 60 del XIII secolo, e benché menzioni della tradizione che associava l’intelletto anomalo alla bile nera fossero presenti in forma di citazione presso un ricco corpus letterario, essa non venne particolarmente considerata, specialmente in virtù del maggior peso dato ai valori cristiani che ai talenti individuali dall’etica cristiana del tempo, che, naturalmente, avrebbe considerato insignificante l’eventualità che l’individuo melancolico fosse stato particolarmente arguto, specie se poi non avesse manifestato con le azioni l’adesione ai precetti morali. Semmai, il melancolico rischia di macchiarsi di due dei peccati capitali, l’accidia e l’ira.

Gli iracondi e gli Accidiosi in Dante

Incisione di Gustave Dorè per Inferno, canto VII.

È per ragioni di carattere medico, scientifico, che nella geografia infernale Dante colloca gli accidiosi insieme agli iracondi nel quarto cerchio dell’Inferno, presentandoli tra la fine del VII canto e l’inizio dell’VIII. Secondo molti degli autori visti finora, la melancolia, a seconda che venisse riscaldata o raffreddata, poteva infatti determinare o la condizione della malinconia, uno stato di non vita, assenza di reazione, vicino o coincidente con la depressione, oppure una forma di ira aggressiva, incontrollata e distruttiva. Naturalmente, l’ira poteva essere suscitata anche dalla bile gialla, che Galeno considera la causa di qualunque manifestazione collerica.

L’acqua dello Stige è nera, “persa”, come la chiama Dante, che designa un colore fra il rosso e il nero, come se la melancolia si fosse mescolata con la bile rossa o il sangue, o come se fosse il frutto della combustione di uno di questi umori, ed effettivamente è un’acqua che ribolle . Ma è anche un’acqua fangosa, una palude, come se fosse mischiata al terriccio, che è appunto l’elemento cui corrisponde la melancolia. Simile è il fiume in cui sono puniti i dannati del primo girone del settimo cerchio, i violenti contro il loro prossimo, il Flegetonte, composto di sangue bollente (Inferno XII); Flegetonte il cui nome è etimologicamente legato al flegma, a partire dal verbo greco φλέγω (flégo), “bruciare”, anche se per ragioni diverse, in quanto il flegma, che vi ricordo essere fondamentalmente catarro, si chiama così perché deriva da un’infiammazione delle mucose nasali.
Ma ecco, insieme agli iracondi, nello Stige, sono presenti gli accidiosi, di cui si dice: (vv. 117-126):

“e anche vo’ che tu per certo credi

che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.

Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:

or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra”.”

“La barca di Dante”, Eugène Delacroix, 1822, Louvre, Parigi.

Il sospirare è forse la spia più fededegna dello stato melancolico di questi dannati: è l’azione principale dei melancolici, osservata molteplici volte nei poeti lirici, ma anche appartenente all’iconografia allegorica. La loro identificazione non si può sbagliare, in quanto ‘tristi’ (v. 121), e si evince anche la condanna sul piano morale verso i melancolici, avvinti in questo stato di desolazione nonostante vivessero nel mondo che Dio ha disposto per essere vissuto gioiosamente. È interessante come lo stesso Pietro Alighieri, nel commento alla Commedia del 1340, scriva «Moraliter et allegorice iste fons ebulliens est creatio tristitiae et irae, quae dicitur ebullitio sanguinis circa cor…». L’accidia è paragonata a un fumo (e la melancolia, vi ricordo, è un umore secco, non umido), che ostacola la facoltà visiva, e a fango nero (belletta negra, v. 124), altra immagine umorale. Più sfuggente, ma anche più significativo, è il ribollire dell’acqua provocato dai sospiri (v. 119), dovuto alla posizione degli accidiosi sul fondo del fossato, che potrebbe anche riflettere un’ulteriore nozione scientifica, in quanto Galeno scrive che la bile nera, non coagulando, è tanto acida che, se versata nella terra, la corrode formando bolle. Esistono anche delle suggestive interpretazioni, per questo canto, che suggeriscono che gli accidiosi siano ‘fitti’ nel limo come la bile che si forma da un conglomero di sangue, che “l’aere dolce che dal sol s’allegra” indichi la stagione primaverile, il periodo in cui l’organismo produce sangue e che, nel caso degli accidiosi, avrebbe visto quel sangue coagulare in bile nera, rendendoli afflitti, e, infine, che il fumo accidioso derivi dalla combustione della bile gialla.

I temperamenti durante l’età moderna e melencolia I di dürer

La teoria dei quattro temperamenti assume un nuovo significato nelle nuove costruzioni di sistema degli intellettuali Quattro e Cinquecenteschi, profondamente interessati alla magia, e autori di nuovi accostamenti di concetti diversi. Spicca in particolare Marsilio Ficino, mistico italiano del XV secolo, autore, oltre che di importanti studi filologici, di numerosi testi di astrologia e magia. In quest’epoca si incontrano numerose rappresentazioni allegoriche dei quattro temperamenti, messi in relazione con l’astrologia, quindi con i sette pianeti, le divinità che li rappresentano e i segni zodiacali cui presiedono.

I quattro temperamenti, incisioni di Raphael Sadelar e Vos Maarten, 1583. Dall’alto a sinistra, in senso orario, il melancolico, il collerico, il sanguigno, il flemmatico.

Gli eruditi del tempo sono particolarmente interessati all’idea della genialità del temperamento melancolico. Vivono in un’epoca diversa tanto da quella degli antichi quanto da quella medievale, e hanno grande considerazione del genio dell’uomo, che, secondo l’ideale rinascimentale che vi scorge la guida dell’universo. Se per l’uomo moderno ogni cosa è misurabile, anche la teoria degli umori, specialmente nella sua valenza fisiognomica, permette di tracciare simmetrie e sistemi con cui cercare la comprensione ultima della realtà. Riscoprendo il Problema di Aristotele, peraltro noto già a Francesco Petrarca, che nelle sue lettere ama dare di sé l’immagine del sapiente malinconico, gli umanisti e gli eruditi trovano il segno di un’elevazione spirituale, in quel temperamento melancolico che provoca amarezza ma ispira l’azione del genio, in una costante e inappagata ricerca intellettuale. Saturno, che era stato posto come pianeta e dunque dio della melancolia dagli autori arabi, diviene così il nume protettore dell’intellettuale geniale. Nel mito, Saturno, la cui identificazione con il Titano Kronos e con il dio del tempo Chronos è sempre stata problematica, è prima di tutto il sovrano dell’Età dell’Oro, che, come abbiamo visto in diversi articoli, viene detronizzato, “cade”, si ritrova in una dimensione sotterranea, ctonia e infera, dove peraltro continua a esercitare una funzione di guida, inviando immagini profetiche a Zeus, e, per effetto della ciclicità del tempo, dovrà, prima o poi, tornare alla sua precedente funzione.

Saturno, incisione di Carlo Lasinio da un dipinto di Raffaello, 1516.

Gli eruditi di questo periodo si rappresentano così in raffigurazioni allegoriche dominate dall’immagine di Saturno, vecchio alato con l’attributo della falce, del drago e della clessidra, Con il capo appoggiato alla mano, me la posizione che tuttora è rimasta la principale rappresentazione della malinconia.

E arriviamo a parlare di questa grande opera d’arte che assume in sé tutto questo snodo, l’incisione di Albrecht Dürer. In una transizione tra la sensibilità del Medioevo e la nuova epoca, Dürer misura il mondo con gli strumenti del calcolo esatto e il razionalismo umanistico, ma prova anche l’ambizione di costruire un grande sistema enciclopedico in cui tutto sia collocato in relazione con tutto, e i segreti legami tra gli elementi e i concetti svelati nel loro arcano significato. La tensione e l’insoddisfazione di questa ricerca compongono il ritratto più noto, simbolicamente ricco e artisticamente perfetto della melanconia, l’incisione “Melencolia I”.

“Melencolia I”, Albrecht Dürer, 1514.

Il ricco e complesso quadro compositivo mostra alcuni personaggi in uno studio, circondati da strumenti di misurazione che simboleggiano le numerose discipline dell’uomo. Ci sono una clessidra, una tavola numerica e una bilancia, e sul pavimento ci sono una sfera e un grande poligono che rappresentano la geometria. Ma tutti questi elementi sono un contorno, un contesto: il centro dell’incisione è l’angelo, la cui nobile figura è ferma nella posizione del malinconico. Il modo in cui tiene il compasso racconta che, fino a un momento prima, l’angelo stava svolgendo il suo lavoro, e si è interrotto, colto da un pensiero, che l’ha distratto e indotto a smettere e guardare altrove, fisso nel suo pensiero, mentre il lavoro intorno a lui procede, dato che il piccolo putto accanto a lui sta continuando, sembrerebbe, a svolgere le sue operazioni: e anche lui, però, ha un’espressione cupa, abbattuta, quasi arresa. Il mondo viene risucchiato dagli occhi di quell’angelo come da un buco nero, anche la luce del sole che tramonta lontano, alle spalle del pipistrello sulle cui ali è scritto il titolo dell’incisione. È la realizzazione del fatto che tutti quei calcoli e tutti quegli strumenti non sono sufficienti, che c’è qualcosa che sfugge inesorabilmente, che c’è un problema che tutto quel sapere non può risolvere. Un male originario, un marchio nero nel sangue acceso dalle fasi di Saturno. È così che si trova, nell’arte, la malinconia per come la conosciamo noi oggi.

Note

[1] R. Klibansky, E. Panofsky & F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, Nendeln, Kraus Reprint, 1964, p. 4.

[2] Ivi, pp. 5-7.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem, p. 9.

[5] Ippocrate, Περὶ φύσιος ἀνθρώπου, in Hippocrates vol. IV, a cura di William Henry Samuel Jones, Londra, William Heinemann, («Loeb Classical Library»), 1931, pp. 1-42.

[6]  Klibansky et al., p. 10.

[7] Ivi pp. 11-12.

[8] Ibidem. Gli autori sottolineano, a proposito della sostanziale estraneità del sangue rispetto alle tre secrezioni, come, mentre in greco esistessero gli aggettivi χολερικός (cholerikós), μελαγχολικός (melancholikós) e φλεγματικός (flegmatikós), formati con lo stesso suffisso, l’aggettivo sorto nella medicina più tarda per denominare il temperamento dovuto a un maggiore contenuto di sangue sia stato sanguineus (p. 13).

[9] Ivi pp. 15 sgg.

[10] Ivi p. 16.

[11] Ivi pp. 16-17.

[12] Ibidem. Sulla melancolia di Democrito si veda Barbetta, Pietro, Catini, Beatrice, L’aspetto clinico della melanconia: un kòsmos tinto di nero, in Bile nera. Nove saggi sulla malinconia, a cura di Emilio Gattico et alii, Dalla Costa, Bergamo, 2013, pp. 116-117.

[13] A. L. Carbone, Aristotele. Problema XXX. Saggezza, intelletto, sapienza, Palermo: :duepunti, 2011, pp. 68-69.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem. È bene porre l’accento, come fa Carbone, sul fatto che l’interesse di Aristotele non è volto al genio in quanto tale (usando questa denominazione di stampo post-romantico, ignota alla cultura classica, per quello che Aristotele intende come una grande predisposizione e un rimarcabile talento rispetto all’ambito in cui un uomo opera), bensì a quegli uomini di genio che sono “fuori dal normale” (perittòs). La domanda posta dal Problema XXX,1 non è perché tutti gli uomini di genio siano melancolici, ma perché lo siano tutti gli uomini di genio stravaganti. E, rispetto alla loro condizione umorale, è normale che questi individui non siano “normali”.

[16] Klibansky et al., pp. 34-35. Aristotele discute il fenomeno in De memoria et reminiscentia, dove afferma che questa memoria invasiva può essere arrestata tanto quanto un arciere può rallentare la freccia dopo averla scoccata. È la medesima impossibilità ravvisata da Petrarca nell’ultimo verso del sonetto XC, “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”.

[17] Ibidem p. 57-58. Galeno non associa il flegma ad alcuna caratteristica caratteriale, considerandolo un semplice prodotto di scarto del processo metabolico.

[18] Ivi pp. 59-60.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, pp. 68-69.

[21] Ibidem.

[22] Ivi, pp. 70-71.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 78 sgg.

[25] Ivi, pp. 82-83.

[26] Ivi, p. 89.

[27] Ivi, p. 91.

Bibliografia

Barbetta, Pietro, Catini, Beatrice, L’aspetto clinico della melanconia: un kòsmos tinto di nero, in Bile nera. Nove saggi sulla malinconia, a cura di Emilio Gattico et alii, Dalla Costa, Bergamo, 2013, pp. 95-144.

Carbone, Andrea L., Aristotele. Problema XXX. Saggezza, intelletto, sapienza, Palermo, :duepunti, 2011.

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Donà, Carlo, La malinconia del mannaro in Umana, divina Malinconia, a cura di Alessandro Grossato, (“Quaderni di Studi Indo-Mediterranei”, III), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010, pp. 41-64.

Focillon, Henri, Albrecht Dürer, traduzione di Giuseppe Guglielmi, Milano, Abscondita, 2004.

Ippocrate, Περὶφύσιοςἀνθρώπου, in Hippocrates vol. IV, a cura di William Henry Samuel Jones, Londra, William Heinemann, («Loeb Classical Library»), 1931, pp. 1-42.

Klibansky, Raymond, Panofsky, Erwin & Saxl, Fritz, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, Nendeln, Kraus Reprint, 1964.

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