Dragonslayer – L’alba dell’era delle viverne

Il 26 giugno 2021 saranno 40 anni da “Dragonslayer”, l’atto fondante del cinema draconico, ed è l’occasione per raccontarvelo e celebrarlo.
Tra i numerosi, importanti anniversari cinematografici che ricorrono quest’anno, quello de “Il drago del lago di fuoco” è quello che che mi importa di più, seguito da quello dei tre film licantropici usciti lo stesso anno, cui, forse, dedicherò un altro articolo.
“Dragonslayer” è un affascinante film fantasy proveniente da un periodo in cui il genere non possedeva, per il pubblico di massa, la stessa connotazione che possiede oggi, e che lo rappresenta in un decennio che ha forgiato la forma della cultura popolare per come essa si manifesta oggi, attraverso classici come Ghostbusters, Terminator, Aliens, Gremlins, e Conan il barbaro, probabilmente il film fantasy più rinomato degli anni 80. Se dunque il fantasy epico, o High Fantasy, non aveva ancora fatto il suo debutto nei cinema, e, come del resto in letteratura, la corrente più nota e apprezzata era quella dello Sword & Sorcery il cui rappresentante principale è proprio Conan, il film di cui parleremo oggi si discosta da questo modello, ma è anche molto lontano dalle patine solenni e dai nobili sentimenti di altri filoni, e trae la propria dimensione dalla volontà di distaccarsi da un modello estetico e di rovesciarne il segno, sovvertendo l’ideale romantico, ancora molto praticato nel secolo scorso, di un medioevo cavalleresco e cortese, permeato di grazia e misticismo, per rappresentare una realtà concreta e realistica, dove tutto quello che la dimensione cortese finge di non vedere è manifesto e crudamente visibile. Cosa che ci permette, volendo assegnare un sottogenere anche a quest’opera, di inserirla nella cartella del Dark Fantasy.
E vi aspettereste che sia stato prodotto dalla Walt Disney Pictures?

“Il drago del lago di fuoco”, come è noto in Italia – uno dei tipici titoli ridondanti che si danno nelle localizzazioni del nostro paese, ma se non altro non totalmente fuori luogo, visto che nel film è realmente presente la scena di un lago di fuoco – narra la storia dell’apprendista di un potente mago, che parte per liberare un regno lontano da un drago tirannico che, due volte l’anno, riscuote il tributo di una giovane donna in cambio della salvezza del resto della comunità. L’idea dei produttori Hal Barwood e Matthew Robbins deriva dall’episodio de “L’apprendista stregone” di Fantasia, ed è stata nutrita dalle ricerche sulla leggenda di San Giorgio, che nella cultura occidentale è quasi sinonimo della figura del drago (purtroppo). Il film si può considerare quindi la trasposizione non di una singola storia, ma di un motivo leggendario, e prima ancora mitico, che era antico già quando i crociati diffondevano in Occidente l’immagine del cavaliere che uccide il serpente scoperta nell’arte orientale, inserendovi l’icona del pio Giorgio che, fino a quel momento, di draghi non ne aveva mai saputo nulla. Ma non è l’agiografia il tema di questo articolo.
Se questi nuclei sono stati il punto di partenza per una trama, lo scopo ultimo del film era un altro: Barwood e Robbins volevano realizzare il miglior drago possibile grazie alle nuove, avanzate tecniche di cui disponevano gli artigiani del cinema di quel tempo, di cui i due avevano fatto esperienza lavorando a stretto contatto con la Industrial Light & Magic, la casa di effetti speciali di “Star Wars”.

Il drago di “Dragonslayer” interruppe un lungo periodo di assoluta scarsità cinematografica di draghi, proprio come i lupi mannari, nello stesso anno, ponevano fine a un decennio di assenza dal grande schermo. I migliori draghi comparsi nel cinema occidentale prima di allora erano quelli creati da Ray Harryhausen in due dei suoi film più celebri, “The 7th Voyage of Sinbad”, del 1958, dove una creatura quadrupede sprovvista di ali insidiava l’eroe eponimo, e “The Argonauts” del 1963, in cui il custode dell’albero del Vello d’Oro era rappresentato come un’idra. Entrambi creati mediante la tecnica dell’animazione a passo uno, o stop-motion, reggono la prova del tempo meglio della creatura apparsa nell’ultima incursione cinematografica occidentale nel campo della draconitas prima di “Dragonslayer”, la dragonessa Katla di “Bröderna Lejonhjärta”, realizzata attraverso un costume animato da quattro operatori. Di ben altro respiro è stata, nelle sue apparizioni tra il 1964 e il 1971, la realizzazione di King Ghidorah nei film di Godzilla, grazie all’uso della suitmation, unita all’ausilio di numerosi animatori per tirare i fili delle numerose appendici del Re del Terrore.
Ma il mondo era cambiato, era l’era di “Star Wars”, de “Lo squalo”, dei nuovi cineasti che impiegavano nuove possibilità effettistiche per fare quello che i puristi vedevano come la distruzione del cinema, oggi proseguito dalla computer grafica. Così, per distruggere opportunamente il cinema, serviva realizzare, sia pure all’interno di una storia fantastica e densa di magia, un drago che fosse credibile, realistico, che facesse avvertire al pubblico la stessa minaccia provata dai personaggi del film. L’animale fantastico doveva passare attraverso il filtro dell’evoluzionismo, dell’anatomia, della scienza.

L’importanza di questo film, il risultato di questo processo, è stato forse l’evento forse più rilevante del Novecento per i draghi occidentali dopo la pubblicazione de “Lo Hobbit”: la nascita delle viverne.
“Dragonslayer” ha inventato le viverne.
No, ok, non esattamente. Dovrò dirlo in modo più preciso, anche se meno teatrale: Dragonslayer ha inventato un nuovo approccio alla rappresentazione dei draghi, che non esisteva prima, e che in seguito, soprattutto negli ultimi due decenni, è diventato l’approccio più praticato nel mondo occidentale contemporaneo. Ultimamente sta contagiando anche l’iconografia asiatica.
Si tratta del drago che possiede una struttura anatomica quadrupede, con due zampe posteriori e due ali che, ripiegate, formano un altro paio di zampe di cui avvalersi per la deambulazione. A volte mi capita di leggere o sentire “ali attaccate alle zampe”, è una definizione rozza che sembra implicare l’esistenza di creature che hanno “ali staccate dalle zampe”, e ignora il fatto che nella storia evolutiva dei vertebrati non esistono ali che non siano zampe modificate. Questa conformazione del drago diverge da quella che è stata considerata la variante principale nell’arte europea tra il Quattrocento e gli anni Duemila, in cui il drago è munito di due zampe anteriori, due zampe posteriori e un paio di ali sul dorso. Una struttura anatomica che lo rende un esapode, un animale con sei arti, qualcosa di estraneo alla storia evoluzionistica dei rettili e di tutti i vertebrati.

Questo tipo di drago è oggi spesso designato con la parola “viverna”, calco dell’inglese wyvern. La parola non è presente né nel film, né nei materiali sui dietro le quinte del film, né nella maggior parte dei materiali sui draghi di quegli anni. Ma è al centro di un dibattito che in questi anni ha animato virtualmente qualsiasi discussione sui draghi nata sul web, rispetto al quale questo film è essenziale per capire cosa l’abbia prodotto, ma, soprattutto, come il nostro rapporto verso i draghi sia cambiato. La viverna, una creatura distinta che meriterebbe un trattamento distinto, e anche delle scuse, è un animale fantastico della tradizione medievale francese, le cui caratteristiche strettamente pertinenti sono un corpo da serpente dotato di ali, talvolta due zampe, e una gemma magica sulla testa; il francese vouivre, che designa questa specie nei bestiari e nei romanzi, diviene in inglese wyvern, che, a partire dal XVIII secolo, acquisisce un significato nell’araldica inglese: poiché moltissimi emblemi contenevano draghi, e ce n’erano molti in cui i draghi avevano quattro zampe, e molti in cui ne avevano solo due, occorreva un termine che distinguesse le due categorie, ancor più visto come il linguaggio araldico è volto a un preciso equilibrio di sinteticità e dettaglio. In tutta l’arte europea del tempo il “drago” era principalmente quello con quattro zampe, e per questo fu per la seconda varietà che venne adoperato wyvern. Un uso rimasto confinato alla lingua inglese, al di fuori della quale anche gli emblemi con i draghi a due zampe continuarono a essere indicati con la parola più comune. E si noti come la distinzione implicasse solo una caratteristica morfologica, giacché poi le viverne araldiche sputano fuoco e hanno ogni altro tratto comune con i draghi.

L’uso odierno di estendere la parola viverna si lega a “Dungeons & Dragons”. Nel suo sistema di gioco – che, in quanto gioco, ha la necessità di regole appropriate – i draghi, menzionati anche nel titolo, sono in un certo senso l’apice dell’esperienza, racchiudendo il concetto di affrontare mostri in stanze sotterranee per ottenere tesori portato al suo massimo livello. I draghi, pertanto, sono incontri rari e importanti, e separati dagli altri mostri grazie a un vasto inventario di poteri sovrannaturali che rimarcano la loro antichità e pervasività nell’immaginario umano. L’utilità di avere una creatura con quell’aspetto, ma più debole e comune, anche solo per fare da complemento alla possanza dei draghi veri, è quello che penso abbia portato Gary Gygax e i suoi a introdurre nei bestiari la viverna come mostro di livello minore, privo delle capacità dei draghi e persino del loro soffio distintivo, con la punta alla fine della coda, un altro elemento araldico (chiaramente presente anche nei draghi), come sua arma distintiva, divenuta un pungiglione velenoso simile a quello degli scorpioni. Un’interpretazione del materiale molto efficiente per il contesto, e anche piuttosto originale, capace in effetti di ispirare gli appassionati al punto di elevarla a un paradigma da estendere a qualunque altro medium che rappresenti i draghi e i loro parenti. Ecco allora che per qualunque drago, al netto di tutte le sue caratteristiche formali, che manchi delle zampe anteriori, ci saranno dei critici che sentiranno l’esigenza di esplicitare che si tratta di una viverna, e non certo per essere intenditori di araldica inglese.
L’aspetto più imbarazzante di questo fenomeno è che, ironicamente, il medioevo europeo, il periodo culturale in cui si è sviluppata la concezione del drago come lo intendiamo oggi, raffigurava questo mostro proprio come una viverna: eretto in posizione bipede sulle zampe posteriori, con due ali, solitamente da uccello, e anche diverse caratteristiche da mammifero. È nel XII secolo che compaiono i primi draghi disegnati con quattro zampe oltre alle ali (draghi quadrupedi senza ali erano pure affermati), e circa due secoli dopo che questo formato diviene più diffuso dell’altro, al punto di mantenere il nome “drago” quando la categoria viverna verrà inventata.

Ricapitolando, i draghi medievali avevano due zampe e due ali, e la parola viverna indicava una creatura a parte; poi l’arte sviluppa i draghi a quattro zampe, che diventano il modello standard, e l’araldica inglese adotta il nome delle viverne per differenziare quelli a due zampe; infine, D&D recupera il concetto e lo fa diventare fin troppo popolare. Tutto questo smentirebbe la mia affermazione che le viverne siano opera di “Dragonslayer”. Come dicevo, la sua novità è stato ideare un nuovo tipo, e questo sta nel dettaglio che tutti le viverne, vere o presunte, fino all’uscita di questo film, erano creature bipedi. “Dragonslayer” le ha fatte camminare a quattro zampe.

Qual è stata la grande intuizione dietro questo design?
Semplicemente, basarlo su un animale realmente esistente, un rettile che, nel mondo reale, ha assunto la capacità di volare grazie a delle ali, e che però nell’antichità, o nel medioevo, non era conosciuto, dunque non era possibile ispirarsi ad esso. Si tratta di uno pterosauro, e per la precisione del Ramphorhynchus, un genere caratterizzato dal possesso di una lunga coda, a differenza di altri pterosauri, come il più famoso Pteranodon, nei quali la coda era molto più corta.

Ricostruzione del Rhamphorhynchus muensteri, una delle specie del genere Rhamphorhynchus.

Vermithrax è il primo drago ad avere una struttura del corpo da pterosauro. Nelle intenzioni iniziali, a quanto pare, doveva avere ali più “rettiliane”, secondo le intenzioni di David Bunnett, ma si adottarono quelle da pipistrello per motivi pratici, visto che, dopo alcune prove, fu evidente che sarebbe stato più realizzabile animare delle ali sostenute dalle falangi delle diverse dita. Cosa che, personalmente, mi rende molto curioso di sapere come sarebbero dovute essere le ali iniziali, probabilmente simili a quello dello pterosauro, con un solo dito a reggere l’intera membrana; e non posso non chiedermi se questo design mi sarebbe piaciuto altrettanto, ma soprattutto, se avrebbe goduto della medesima popolarità; se i film successivi avrebbero integrato anche questa componente, ed essa avrebbe viaggiato altrettanto a lungo; se avrebbe invece decretato una minor fortuna per la creatura; o se, indipendentemente dalle sorti di “Dragonslayer”, qualcun altro avrebbe recuperato l’idea di fondo e sostituito alle ali da pterosauro quelle da pipistrello.
È chiaro che queste permettono un aggancio con la tradizione che sarebbe stato impossibile altrimenti: i draghi, nell’arte, hanno le ali da pipistrello da molto tempo. Dal XIII secolo, per la precisione, fino al quale, come dicevo, le ali erano sempre state da uccello. L’inserimento di quelle da pipistrello, ovviamente, favoriva l’identificazione con la categoria del diabolico, peraltro conferita ai draghi fin dagli albori del Cristianesimo, data la loro concettualizzazione come rettili.

“Dragonslayer” è un film importante anche per la rarità di essere focalizzato sul drago. Il rettile infuocato non è un antagonista secondario impiegato come cavalcatura o sopposto di un villain umano, e non è solo la prova finale del cammino dell’eroe, come nella maggior parte delle storie su pellicola che lo riguardano. Questo è un film che parla di draghi, e intorno al drago si costruisce tutta la vicenda, originandosi dal problema posto dalla sua presenza e dalla sua violenza e dipanandosi, attraverso i suoi atti, secondo le sue azione e le sue reazioni alle azioni degli altri personaggi, oltre naturalmente all’importanza non trascurabile svolta dagli antagonisti umani. In altri termini, è un vero e proprio monster movie, uno tra i pochi film con i draghi a seguire la logica di questo genere anziché quella del film fantasy di stampo avventuroso. Solo “Il regno del fuoco” del 2002, suo erede sotto molti aspetti, è attualmente ascrivibile alla medesima categoria, insieme a una schiera non fittissima di piccole produzioni poco conosciute.

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