«Di, quibus imperium est animarum umbraeque silentes.
Et Chaos et Phlegethon, loca nocte tacentia late,
Sit mihi fas audita loqui, sit numine vestro
Pandere res alta terra et caligine mersas.»
Eneide, VI, 264-267.
Questo è un lavoro diverso dagli altri. È il sequel spirituale di La vita un funerale, la morte una resurrezione.
Discesi nell’Averno al cospetto del mitologico Caronte, figlio della Notte, saliamo sulla sua barca per parlare dei fiumi dell’Aldilà, della mitologia classica, ma anche delle culture orientali e nordiche. Narrazione e spiegazione si intrecciano attraverso le voci di Caronte, che descrive, e l’Anima, che spiega. Nella sezione centrale isoliamo un paragrafo comparatistico in cui tracciare le somme del confronto tra i vari resoconti della letteratura e dell’arte sulla topografia infernale. Infine, il proseguimento del viaggio raggiunge connotati cosmici, e nuovi protagonisti della saga dell’Anima del Mostro fanno la loro comparsa.

«Le acque dell’Acheronte hanno un suono ovattato. Quando l’acqua si increspa, squittisce come carne viscida. Il remo la attraversa come una ferita.
Il Cocito è il più rumoroso. Il Cocito piange sotto la chiglia della barca. Supplica, strepita, blandisce. Era così anche prima che la prima anima lo raggiungesse, perché la sofferenza è nata prima della morte.
Lo Stige, invece, è silenzioso. Nessun suono. È il fiume dell’odio, e l’odio non parla.
Navigo in queste acque da prima che il cielo e la terra si separassero. Non mi piace, non mi dispiace. Sono nato già vecchio per guidare questa barca lungo i fiumi infernali, avanti e indietro. Avanti, e indietro. Non è un’intenzione, è una legge fisica.

Mi hanno detto che vuoi passare a dare un’occhiata. Vuoi salire sulla mia barca e attraversare la palude acherontea per osservare la piana degli Asfodeli, e poi passare per il Flegetonte fino a vedere il corso di Stige la grande, e fermarti quanto più vicino al Tartaro riesco a portarti.
Ho smesso di sconsigliarlo molto tempo fa. Eracle, Orfeo, Psiche, Enea, Erittone, Paolo di Tarso, Dante. I mortali non vedono l’ora di entrare, finché sono vivi e credono di poter tornare indietro. Per te sarebbe un grande privilegio essere nominato dopo di loro, sì, certo.
Stupido pezzo di carne.
Non sai niente. Ma non mi interessa. Hai l’obolo? Lo sanno tutti che serve l’obolo. Dammelo. No, me lo devi dare adesso. Perfetto. Ebbene, sali a bordo. Mettiti pure vicino a quell’uomo. E tu, lattante, smettila di guaire, la tua anima è immortale, ma se ti sbatto questo remo sul cranio, lo sa il Tartaro se sentirai dolore.
Allora, torniamo a te, nuovo Odisseo. Ascolta bene quello che ti dico, anche se non crederai a una sola parola, come gli altri stupidi mortali a cui le ripeterai. Ma questo è insignificante, tanto alla fine verrete tutti nello stesso posto, e dovrete pagarmi contro la vostra volontà, altrimenti non farete che aggirarvi su questa riva come degli spettri, ancora più insignificanti di quanto non foste in vita. Ma tu, mettiti pure comodo. Eh…eh…eh…»
«Boatman accept the coin of my son and lead him to the other bank
And send my damn to the time, that Charon decided to take the son of mine»
(Rotting Christ – Threnody)
Raccomando di lasciare suonare la canzone, anche più volte, durante la lettura.
Mi senti? Sono io, l’Anima, quello con cui parli di solito. Adesso sono nella tua mente. Ancora ti stupisci, dopo quante ne abbiamo viste insieme? Oggi assisterai a meraviglie ben più grandi di questa. Sei sulla barca di Caronte, il traghettatore infernale. Hai fatto bene a dargli la moneta. Ascolta, lui non ti dirà molto, quindi le informazioni te le darò io. Non fargli notare che stai ascoltando la mia voce, mi raccomando. Ti spiegherò le cose che lui ti mostrerà, in modo da aiutarti a capire. Perché sei qui? Abbi pazienza, lo scoprirai dopo. Predisponiti alla sorpresa, oggi ne avrai molte.
Trovo che uno degli argomenti più affascinanti della mitologia classica sia il regno dei morti. Ogni religione ha elaborato un quadro complesso della sua geografia oltretombale, precisa almeno quanto quella terrestre, e a volte persino di più. Era come se ci fosse davvero qualcuno capace di attraversare la soglia dei mondi e fare la spola tra il mondo della luce e quello delle ombre, o un redivivo che fosse tornato indietro dalla morte, o, più banalmente, dei mistici molto abili nel proiettare la loro anima oltre il limite della carne, attraverso le vie tortuose che portavano nell’affascinante aldilà.
Aldilà. Hai mai riflettuto su questo nome? È l’indicazione più vaga che si possa dare, eppure, quando la sentiamo, sappiamo sempre a dove ci si riferisca.
Un dettaglio che si trova ovunque, per una ragione che tenteremo di indagare, è l’idea che il mondo ultraterreno sia percorso da un fiume. La civiltà dell’uomo è fiorita in vari momenti nelle vicinanze di grandi fiumi che rendevano la terra fertile, collegavano luoghi diversi e offrivano nutrimento. In qualche modo, l’idea del mondo ultraterreno è anche un riflesso di quello che conosciamo nel mondo più immediatamente percepibile, gli inferi ospitano montagne, foreste, animali, a volte persino cose meramente umane come utensili e gerarchie.
Eppure, i fiumi non sono soltanto un abbellimento del paesaggio mitologico ipogeo. I fiumi sono il suo elemento costitutivo, insieme all’ombra. Descrivere tutto l’aldilà in una volta sarebbe una materia sconfinata, ma cercare di comprendere la rete fluviale che lo sostiene e lo collega ci fornirà indubbiamente un ottimo punto di partenza.
«Qui siamo nell’Acheronte. Annusa l’aria. Non ti ucciderà. La senti? Non ti fa sentire assolutamente miserabile? Se mi fermassi qui, e ti costringessi a respirarla a lungo, il dolore e la disperazione ti offuscherebbero la mente fino a farti desiderare di sparire nel nulla. Io però non le sento. Non provo la disperazione, perché la disperazione è generata dalla speranza, e la speranza presuppone la mutevolezza. Io non l’ho mai posseduta. Sono nato con una funzione immutabile, e conosco il mio destino. Odiami, non c’è nulla in tutto l’universo che possa alterare il mio stato, e dunque, nulla che io possa temere»
Durante questo viaggio sinistro, proveremo a compiere un’impresa filologica: mettere insieme tutti i resoconti della tradizione greca e latina, insieme ad alcune rielaborazioni medievali degne di menzione, per vedere in cosa concordano e in cosa dissentono tra loro. Quindi, li metteremo alla prova con le visioni che Caronte, traghettandoci verso la palude stigia, ci consentirà di vedere.

Il primo fiume infernale della mitologia fa parte dell’aldilà sumero, e si chiama Hubur, che in caratteri cuneiformi si scrive 𒄷𒁓: significa “aldilà”, ma significa anche, semplicemente, “fiume”. Secondo alcuni è la corrente primordiale del corpo di Tiamat, che viene chiamata anche Ummu-Hubur. L’Enuma Elish chiama questo fiume “la madre mare Hubur, che dà forma a tutte le cose”, e del resto, per gli antichi, anche il mare faceva parte di un grande fiume che circondava il mondo, Oceano. Le anime dei morti della civiltà sumera, babilonese e assira, dopo aver attraversato il deserto, il luogo selvaggio che sempre attendeva oltre la sicurezza delle città, dovevano attraversare questo grande fiume prima di raggiungere Kur, l’oltretomba, e le sue molte regioni, e incontrare gli dèi Anunnaki, che decretavano la giustizia.

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Per superare il fiume, le anime devono rivolgersi a un uomo di nome Urshanabi, il primo nocchiere della mitologia.
Nella storia di Enlil e Ninlil, dove il dio dell’aria deve entrare nel regno dei morti per liberare Ninlil, che è stata rapita, il barcaiolo è chiamato, trascrivendo il cuneiforme, SI.LUI.GI. Nell’Epopea di Gilgamesh ha un ruolo determinante, poiché, quando il re di Uruk, dopo la morte dell’amico Enkidu, decide di entrare nel Kur per scoprire il segreto dell’immortalità, Urshanabi diviene suo compagno. In particolare, lo incontra mentre si dedica alla pratica di raccogliere serpenti, dal misterioso significato simbolico (se il viaggio di Gilgamesh segue un percorso attraverso le costellazioni, Urshanabi rappresenta forse l’Ofiuco, detto anche il Serpentario?). Poiché Gilgamesh distrugge le pietre che permettono alla barca di muoversi, Urshanabi lo incarica di raccogliere centoventi bastoni di legno per sostituirle; una volta svolto il compito, i due vanno insieme ad incontrare Utnapishtim, l’unico sopravvissuto al Diluvio Universale, colui che gli dèi hanno reso immortale e che Gilgamesh intendeva incontrare. Utnapishtim racconta al re di Uruk la sua storia, ma bandisce Urshanabi dal regno dei morti, per aver concesso a un vivo, per quanto divino per due terzi, di accedere al reame interdetto. Urshanabi ritorna con Gilgamesh a Uruk, per poi separarsi da lui e andare verso chissà quale fato.

Credo sia significativo il fatto che, a quanto sembra, nella mitologia assira Urshanabi fosse diventato un’entità chiamata Hamar-tabal, descritto da tutti come un mostro orribile. Come se, forse proprio per via dell’esilio stabilito da Utnapishtim nell’epopea di Gilgamesh, o forse per la lenta consunzione provocata dal regno dei morti, l’umanità di questo antico psicopompo fosse stata destituita e alterata fino alla disumanità.
Che sia stato così, che un demone buono è diventato il diavolo arcigno che traghetta questa barca?
«Che cos’hai da guardare, mucchietto di carne?» Ruote di fuoco che diventano incandescenti.
Dissimula. E comunque vada, non provare pena per lui. Nel piano di esistenza in cui si trova, lui sta meglio di tutti noi. Il grigiore gli è connaturato. La malinconia, per noi, è un’alterazione della misura naturale degli umori, mentre per lui è quella, la misura naturale.
La mitologia etrusca conosceva Charun. Lo si trova raffigurato nei sarcofagi, sulle tombe, le urne. Benché il suo nome lo inserisca necessariamente nella rete onomastica di cui fa parte anche Caronte, l’iconografia di Charun è ben distinta, dato che non compare mai su una barca; si tratta, nondimeno, di uno psicopompo, che guida le anime verso gli inferi via terra, a piedi o a cavallo, caratterizzato dalla ferocia con cui le ghermisce. La figura tradizionale dell’Orco di memoria latina si lega in qualche modo alla sua, poiché Charun è come un mostruoso demone che emerge dal mondo infernale per cacciare le anime e rapirle all’affetto dei cari.
Come Caronte stringe il suo remo, così Charun è armato di martello, e talvolta anche di spada. Ha i calzari alti e una tunica, barba arruffata e occhi diabolici, spesso accompagnati da attributi che lo qualificano più manifestamente come demone, dalle orecchie appuntite e il naso adunco, all’occasionale colore bluastro della pelle, fino alla presenza di serpenti intorno al corpo e ali da uccello.
Si dibatte sul fatto che la tradizione mediterranea abbia incorporato la nozione del traghettatore dei morti dal vicino oriente, l’abbia sviluppata indipendentemente, o si basi su un frutto dell’immaginario collettivo. Magari, più semplicemente, diversi viaggiatori visionari l’avevano raccontato ai loro popoli.

Caronte è il custode e il maggiordomo di questo mondo. Viene verso la riva sulla sua barca che cigola e scricchiola, al di sopra delle acque del lamento e del dolore. Χάρων è lo psychopompós, è colui che porta le anime. Tra gli innumerevoli dèi, demoni e santi che hanno svolto questo compito nella millenaria storia della morte, nessuno è conosciuto come lui, maschera sul volto di tutti gli altri, ombra che si staglia sulla nebbia perché, nel tremore e nella sospensione, è l’unica figura salda e incrollabile.
I suoi occhi avvolti dalle fiamme risplendono per il cieco mondo, non per guidare chi vi entra, ma per spaventare chi vi resta. Si dice che il suo nome derivi proprio da χαρωπός (charopós), “dallo sguardo acuto”. Uno sguardo che, però, può anche essere rivelatore di un temperamento feroce e collerico. Caronte è l’orco, il demone che emerge dal fondo della notte per divorare chi morirà. Caronte è egli stesso l’immagine degli inferi, è egli stesso la morte, e la porta con sé.
Caronte è figlio della Notte, Nyx, ed è nato nelle prime generazioni dell’universo, insieme alle galassie. Thanatos, la morte, e Hypnos, il sonno, sono suoi fratelli. Sono sovrapponibili, perché il sonno è come la morte, e la morte è come il sonno, e dunque anche Caronte, qualunque cosa sia in realtà, è simile al sonno e alla morte.
«Io conosco il corso e il flusso di ogni fiume, tranne il tempo, perché, per me, non esiste il tempo»
Mi chiedo: se è così antico, che serbi il ricordo di quando le sponde della triste riviera d’Acheronte erano frequentate non da spiriti umani, ma da altri esseri?
testimonianze infernali
Descrivere l’aldilà, un’idea umana grande quanto il mondo stesso, un’idea divina, è l’essenza di qualsiasi costruzione mitopoietica. Oserei dire che descrivere l’aldilà sia l’essenza della poesia stessa.
Questo altro mondo, altra esistenza, è la somma alterità del nostro essere noi e qui. Sta al mondo come l’anima sta al nostro corpo. È l’investitura di qualsiasi narratore, la lotta contro il drago della sua iniziazione. Ma, grazie alla Notte, non è necessario farla tutta in una volta. Non è possibile. Solo ai visionari è concessa, e solo di rado, una fugace visione dell’Oltretomba nella sua interezza, in una singola immagine folgorante.
Finché non sarà concesso anche a noi, viaggeremo più lentamente, seguendo l’andamento di una vecchia barca di legno, mettendo insieme i frammenti lasciati da quelli che l’hanno visto, o che, come noi, hanno messo insieme i frammenti che erano stati messi nelle loro mani.
Sia Omero (VIII secolo?) il nostro punto di partenza, come per ogni cosa.
«E là dove nell’Acheronte sfociano il Piriflegetonte
e il Cocito, che è un efflusso dell’acqua di Stige,
e vi è una rupe e la confluenza dei due fiumi fragorosi;
allora, o eroe, accòstati lì presso, come ti dico,
e scava una fossa di un cubito da una parte e dall’altra,
e intorno ad essa versa una libagione per tutti i morti,
prima con latte e miele, e poi con dolce vino,
e poi ancora con acqua; e sopra spargi bianca farina.»
(Odissea, XI)
Nell’Odissea, con la prima esposizione della geografia oltretombale della letteratura classica, il Piriflegetonte, che qui figura con il suo nome più antico, e il Cocito, che è un emissario dello Stige, sfociano insieme nell’Acheronte. e in tale punto si trova una rupe. Qui troviamo insieme i nomi dei quattro fiumi principali, quattro dei cinque di cui parleremo.
Il resoconto più articolato dell’antichità ce lo fornisce Platone nella conclusione del Fedone (IV secolo a.C.)
«Di questi fiumi dunque ce n’è parecchi altri e grandi e di natura diversa; ma, fra questi molti, ce n’è quattro, dei quali il maggiore, e che scorre tutto intorno alla terra più lontano dal centro, è quello chiamato Oceano; dirimpetto a questo, e scorrente in senso contrario, c’è l’Acheronte, il quale attraversa luoghi deserti, e poi, inabissandosi, come sai, sotto la terra, giunge alla palude Acherusiade: quivi convengono la più parte delle anime dei morti, le quali, dopo rimaste colà quello spazio di tempo che a ciascuna è destinato, alcune più a lungo altre più breve, sono rimandate di nuovo nel mondo a rigenerarsi in forme di esseri viventi. Un terzo fiume scaturisce nel mezzo tra questi due, e vicino alla sua scaturigine dilaga in un luogo ampio e riarso da molto fuoco, e fa una palude più vasta del nostro mare, ribollente d’acqua e di fango; di là poi muove in giro, torbido e fangoso, e, serpeggiando per entro la terra, passa per altri luoghi finché giunge a una estremità della palude Acherusiade, ma senza mescolare con quella le sue acque; e, dopo fatti più giri a spirale sotto la terra, imbocca nel Tartaro, ma in un punto più basso della sopraddetta palude. Questo fiume è quello che chiamiamo Piriflegetonte; del quale sono come frammenti quelle colate di lava che erompono fuori sopra la terra, dovunque trovino una via d’uscita. Dirimpetto a questo scaturisce il quarto fiume: il quale dapprima dilaga, come dicono, in una regione orrida e selvaggia e che ha dappertutto il colore del cìano, ed è quella regione che chiamano Stigia, e la palude che fa questo fiume imboccandovi la chiamano Stige. Questo fiume, dopo imboccato in codesto luogo e attinte quivi nell’acqua certe sue orribili forze, si sprofonda sotto terra, e, girando a spirale, scorre in senso contrario al Piriflegetonte e con esso s’incontra nella palude Acherusiade dal lato opposto. Neppur questo fiume mescola con altra acqua le sue acque; e anche questo, dopo girato in cerchio, si getta nel Tartaro dal lato opposto al Piriflegetonte. Il suo nome, come dicono i poeti è Cocìto.»
(Traduzione del Fedone di Manara Valgimigli, in Opere complete, Bari, 1982, vol.I, pp.172-82, citato da Il mulino di Amleto pp.222-223.)
Il discorso su Oceano ci porterebbe lontano. In questa sede, ricorderemo che i Greci lo consideravano il limite di tutte le terre, e che lo concepivano quale fiume come questi altri, ma di dimensioni incommensurabili. Era anche Oceano, in alcune cosmologie, a separare il mondo dei vivi da quello dei morti. Alcuni luoghi poetici arcaici portano a ritenere che, in qualche momento e in qualche luogo dell’antica Grecia, Oceano e la sua sposa, Teti, fossero considerati i progenitori degli dèi, prima che Esiodo costruisse la sua Teogonia su Gea e Urano, e forse anche contemporaneamente a ciò.
Acheronte gli scorre dirimpetto, ed è proprio lì che stiamo navigando, dopo aver soggiornato nella palude Acherusiade, luogo di raduno della anime, che Caronte incessantemente raccoglie.
Gli altri due fiumi che nomina sono il Piriflegetonte e il Cocito, mentre lo Stige è la palude che quest’ultimo forma nel luogo in cui ristagna. Nel nostro caso, considereremo lo Stige un fiume a sé, come troviamo in altri autori.
Per ogni fiume infernale, consiglierò alcuni ascolti, e altre canzoni avranno un peso maggiore nel corpo dello stesso articolo. Ma, per la sua interezza, consiglio l’album Styx dei Phonothek, composto da dieci tracce che costituiscono una soundtrack perfetta per il nostro viaggio, rappresentando i fiumi, il barcaiolo e i luoghi dell’Ade.
Acheronte

Ἀχέρων, chiamato anche Ἀχερούσιος. Il fiume del dolore.
Questa etimologia proviene dalla parola ἄχος (ákhos), che significa, appunto, dolore. Si trova anche in altre lingue indoeuropee, come nel sanscrito अघ (agha, “male”) e nel gotico 𐌰𐌲𐌹𐍃 (agis).
L’alternativa etimologica è *ἄχερος, ” stagno”, “lago”, una parola supposta. Nella letteratura è spesso descritto in termini di desolazione e mestizia: Virgilio parla di un torbido gorgo di fango (Eneide, VI 296-297), di ” vada livida ” (VI 320), mentre Stazio parla di “tristes ripae” (Tebaide, I, 93), che in Dante diventa “trista riviera d’Acheronte” (Inferno, III, 78).
Occorre tenere a mente che, nel pensiero greco, ogni fiume era un dio.
«Acheronte era il figlio di Elio e di Gaia. Ebbe la stupida idea di servire da bere ai Titani, durante la guerra contro gli Olimpi. Zeus gli ha dato di che dolersi, come puoi sentire».
Il fiume non si lamenta, ma si avverte una soverchiante tristezza.
Secondo Ovidio, Acheronte era figlio di Cerere, cioè Demetra, e si vergognava di apparire davanti al sole. Il che entrerebbe in conflitto con la paternità di Elio. (Ovidio, Metamorfosi, V, 539-541)
«Acheronte ha avuto un figlio. Ascalafo. Era il custode delle orchidee di Ade. Il suo zelo gli costò caro: quando Ade portò qui, per la prima volta, la giovane dea Persefone, per farne la sua sposa, e riuscì a farle mangiare il frutto del melograno che l’avrebbe resa per sempre una dea degli inferi, Ascalafo corse in lungo e in largo per dire a tutti dell’atto di Persefone. Il patto era suggellato, e questo rese Demetra furibonda. Imprigionò l’incauto spione sotto un masso. Eracle, il figlio di Zeus, lo liberò, quando passò di qui. Ma, perché la sua punizione non terminasse, Persefone lo trasformò in un gufo, memore della lugubre voce lamentevole che aveva accompagnato il suo destino.
Chiedigli chi fosse la madre.
Caronte tace e volge il collo, e la sagoma dei suoi denti rivela che sta sogghignando.
«La madre è l’Oscurità. Forse te la farò vedere, prima della fine»

Acheronte è il nome dato ad alcuni fiumi reali della Grecia e dell’Asia minore. Gli antichi credevano che quei fiumi portassero direttamente nel mondo dei morti. In questo senso, l’Acheronte è il fiume infernale più vicino a noi sulla Terra. La palude dove le anime si radunano viene chiamata anche Acherousia, ed è un limbo tra questo mondo e l’aldilà. L’imbarcazione è un simbolo, ma, quando nel nostro animo è più grande la sofferenza, e la disperazione ci fa approssimare all’abbandono totale, ecco che siamo più vicini ad Acherousia. Alcuni di noi, si dice, percorrono senza saperlo il tratto più esterno della palude anche più volte nel corso di una sola vita.
«My light slowly fades away
My hope’s gone and went astray
But I see their dark dream-sails
Take me away, from here!
In the cold of winter I found the other half of me.
An amethyst broke through the walls of silent solitude.
But we are lost in a world of despair,
So we head for the ocean; a destination unknown
Eppure, amico mio, devi prestare attenzione, perché se ti approssimi troppo rischi di rimanere intrappolato.
«Voi mortali credete che qui all’inferno il dolore sia più grande di quanto ne abbiate conosciuto in vita, e lo temete in virtù della paura che la sofferenza che provate, legittimamente, vi incute. Altri sostengono che l’inferno lo viviate sulla terra, e che sia ben peggiore di qualunque cosa vi aspetti oltre questa soglia.
In realtà, i due mondi sono uguali. La pena degli inferi è la stessa della vita. Un’esistenza senza dolore è inconcepibile. Non la troverete nell’Ade, non la troverete nei sogni. L’unica speranza che abbiate è affrontare il dolore.»
“Psst. Ricorda che io sono qui nella tua testa. Non lo affronterai da solo. So che siamo negli inferi e l’atmosfera non è la più rassicurante, ma credimi, andrà tutto bene.”
«Maybe they want me to come onboard
Maybe I’m cursed here to stay
But maybe they want me to come onboard
Maybe they’ll gather all the lost souls
Maybe they’ve heard our mournful cries
And maybe they want us to come onboard.»
Akherousia, nella mia anima, suona in un’altra storia, su qualcuno che, pur essendo vivo, navigava sulle acque dei morti e percorse molte volte quelle vie, e che aveva anche qualcosa in comune con Caronte. Ma quella la racconteremo solo tra cento anni.
Concludiamo con i versi di Virgilio, che descrive anche la nostra guida di oggi.
«Qui parte la via verso l’onde dell’Acheronte tartareo.
Torbido qui di fango, ribolle in vasta voragine
il gorgo, e tutta in Cocito erutta l’arena.
Traghettatore orrendo, guarda quest’acque ed il fiume
Caronte, irto, pauroso: a lui lunga dal mento,
bianca scende la barba incolta, sbarra occhi di fiamma;
sordido dalle spalle, gli pende, annodato, il mantello.
Da solo spinge col palo la barca e le vele governa,
dentro il suo livido scafo i corpi trasporta,
vecchissimo: ma cruda e salda è la vecchiezza del dio.»
(Eneide VI, 295-304)


Guardale, le anime degli addolorati. Assumono la forma di queste splendide sfingi nere e dorate. La tua scienza le ha chiamate Acherontia atropos, quasi supponendo che si trovassero naturalmente in questa palude. Ebbene, è davvero così. Se le ascoltassi attentamente ti porrebbero un enigma, ma accettare di rispondere sarebbe molto pericoloso, perché potrebbe portarti a non abbandonare mai più questo luogo. Il loro enigma è: Sei pienamente sicuro di essere mai stato vivo?
Brani consigliati: Akherousia dei Draconian.
FLEGETONTE

Φλεγέθων, dal verbo φλέγω, “phlégō”, “piango”, ma anche “brucio”, dalla radice indoeuropea *bʰel- che ha dato anche flagro in latino. Il suo nome più anticamente attestato è Piriflegetonte, che con il prefisso πῦρ, “fuoco”, non lascia dubbio sulla natura di questo rivo oscuro.
Il Flegetonte è il fiume di fuoco.
Nell’Odissea, dove si trova la sua menzione più antica, il Piriflegetonte si immette nell’Acheronte insieme al Cocito.
Nel Fedone, gli viene concesso un certo spazio, poiché le sue esalazioni incandescenti vengono considerate l’origine dei fenomeni vulcanici.
Dante, nel XII canto dell’Inferno, lo descrive come un fiume di sangue bollente, che fa da contrappasso alla natura collerica dei violenti che vi sono puniti.
Brani consigliati: Phlegeton (Stream of Fire) di Arne Deforce e Mika Vainio.
COCITO

Κώκυτος, con l’accento sulla prima sillaba, o Κωκυτός, accentato sull’ultima, nel qual caso è omografo al semplice sostantivo che significa “lamento”. Cocito, il fiume del lamento. Rappresentato come un luogo glaciale dopo la grande invenzione di Dante, nella mitologia figura con un ruolo simile agli altri fiumi. In particolare, lo troviamo come affluente dello Stige.
«La nebbia è così fitta che crederai che navighiamo sul vuoto, se ti sporgi. Ma non farlo, potrebbe venirmi la tentazione di tirarti uno scherzo di cui ti pentiresti.
Le senti, le voci? No, non voci distinte. È quell’ululato continuo che si ripete incessante nelle tue orecchie. Pensavi fosse il vento? Ascolta con più attenzione.
Ognuna di queste ombre non ha più altro che la propria voce. E quindi parlano. Si lamentano. Ripetono le cose che hanno detto in vita, le cose che dicevano mentre morivano. Alcune parlano al futuro, continuano a parlare dei progetti che si sono imposti di portare a termine, credendo sempre di avere ancora tempo fino a quando non glien’è rimasto più. E, nonostante questo, continuano a dire “Lo farò, lo farò, lo farò”. Patetico.
Caronte ignora quelle voci, ma non è insensibile. Chiedigli di Orfeo.
Quando Orfeo venne qui a cercare sua moglie piansi anch’io, è vero. Non trarre conclusioni affrettate, però. Piansi per quella che voi chiamate empatia. La sua sorte non mi toccava, io non potrei provare sensazioni come le sue. Ma la musica che suonava parlava un linguaggio chiaro, parole che compresi anche io. Orfeo fu capace di farmi comprendere il suo dolore, e io sentii il modo in cui si sentiva lui. Fine della storia.»
La musica è un mezzo comunicativo universale. È una delle poche cose capaci di aprire il velo verso questo mondo in qualunque momento.
STIGE

Στύξ è il più importante dei fiumi infernali. Il suo nome evoca il brivido dell’oltretomba, il mistero della morte. “Palude Stigia” è un’espressione che spesso vale a designare l’interezza del regno di Ade. menzionata in in Esiodo (Teogonia 777-806), in Omero indica tutto l’oltretomba (Iliade, VIII, 369). In Odiss. X 514 c’è lo Stige che origina il Cocito, e il Cocito, insieme al Flegetonte, sfocia nell’Acheronte. Il suo nome significa “odio”.
«Là ha dimora, odiosa agli dèi immortali,
terribile, Stige, figlia di Oceano che in lei rifluisce,
la più vecchia. Lontano dagli dèi dimora, nell’illustre casa,
di grandi rocce coperta, e tutt’intorno
s’appoggia su colonne d’argento, elevata nel cielo.» (Teogonia 777-780)
Nel Fedone il Cocito, che trasporta le anime degli omicidi, raggiunge un luogo detto Stigio, dove forma la palude Stigia, per poi tornare alla pianura Acherusia, nel Tartaro, da cui ha origine. Il luogo è connotato dal colore ciano, l’azzurro chiaro, che è anche uno dei tre colori primari insieme al magenta e al giallo, e questa immagine è rimasta forte nell’iconografia. L’alone azzurrino che vediamo intorno a noi adesso è esso stesso un attributo dell’Ade.
Virgilio scrive «Cocyti stagna alta vides Stygiamque paludem,
Di cuius iurare timent et fallere numen» (Aen. VI, 323-324.)
«Tu del Cocito vedi gli stagni profondi, la Stigia palude,
per la cui sacra potenza paventano di spergiurare gli dèi.»
Stai bene? Ce la fai? Siamo quasi alla fine. Quello che vedrai ora dovrebbe farti sentire meglio.
Brani che consiglio: Crossing the Styx, di Paul Gorman (dalla colonna sonora di Dante’s Inferno), River Styx, dei Black Rebel Motorcycle Club.
LETHE

Il fiume che Dante pose nel Purgatorio per distinguerlo dagli altri, poiché aveva una funzione più nobile. Il nome Λήθη deriva dal verbo λήθω (lḗthō), che significa “dimenticare”. Deriva dalla stessa radice, *leh₂-, che significa “nascondersi” e che troviamo ancora in “letargo”. Lethe è il fiume dell’oblio, e tale è anche il suo nome.
Le acque di questo fiume hanno una proprietà speciale: bagnandosi di loro, le anime dimenticano ciò che hanno compiuto in vita. Si lavano come di un battesimo, e un dolce oblio le purifica delle loro colpe, come anche dei loro meriti. Fatte nuove di questa dolce acqua, sono pronte per reincarnarsi.
«Lethe è figlia di Eris, la discordia, insieme a tutta quella folta schiera di demoni, Dolore, Menzogna, Inedia. Benché i mortali affermino di disprezzare queste cose, arriva sempre il momento in cui le adoperano e le desiderano. E l’oblio è una di quelle che bramano più spesso.
Allora, ti interessa questa storia della reincarnazione? Metempsicosi, la chiamano.
ÉLIVÁGAR

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Nella mitologia nordica, durante la nascita del cosmo, quando calore di Múspellsheimr, il mondo di fuoco, raggiunse i ghiacci di Niflheimr, e ne fuse una parte, nell’universo ci fu acqua per la prima volta. Nacque la sorgente di Hvergelmir, il calderone rimbombante, agitata dal moto di queste grandi masse d’acqua che s’accalcano con cosmica violenza. Da Hvergelmir scaturirono gli Élivagar, i fiumi dalle onde ghiacciate. Undici erano gli Élivagar, sebbene i nomi che gli uomini hanno dato loro siano molti di più. Fiumi velenosi, impossibili da attraversare per chi non è un dio, che scorrono attraverso tutto l’universo, e attraverso le loro correnti regolano lo stato di tutte le dimensioni.
I fiumi, scorrendo sopra il Ginnungagap, depositarono strati di brina uno sopra l’altro, che lo ricoprirono. Quindi l’universo è costruito sulla terra formata sopra gli undici fiumi infernali.
Snorri ci ha tramandato questi dodici nomi: «Svöl (“fresco”), Gunnþrá (“desideroso di battaglia”, “impetuoso”), Fjörm (“frettoloso”), Fimbulþul (“vento magicamente potente” o “cantore magicamente potente”), Slíðr e Hríð (“tempestoso”), Sylgr (“[quello che] inghiotte”) e Ylgr (“[ululante come una] lupa”) , Víð (“ampio”) e Leiptr (“[rapido come] il fulmine”). Gjöll (“risonante”) è il più prossimo ai cancelli di Hel.»
Undici era anche il nome dei figli di Tiamat.
Oltre la morte

«Beh, che te ne pare?»
Un vuoto spaventoso. Un baratro incomprensibile. Prosegue fin dove occhio riesca a spingersi. Cercare di contenerlo nella mente è come tentare di bere il mare.
«Da qui è venuto fuori tutto. Un buco. Alla fine è sempre così. Uno stupido buco. Sì, laggiù c’è il Tartaro. E quella linea è il tratto di Flegetonte che mi permette di arrivarci. Il Tartaro è cinto da un fiume, e anche quel fiume è un dio. L’ha generato il Caos.»
Guarda lassù. È il cielo.
In alto, al di sopra del baratro, si staglia buio il firmamento, con tutte le sue stelle, in congiunzioni invisibili dalla Terra, acceso dal bagliore di supernove e nebulose evanescenti.
De Santillana si chiedeva «Ma dov’è lo Stige? Certo non qui da noi, con quel suo paesaggio soffuso di blu! Anche l’immenso abisso del Tartaro spazzato dalle tempeste non è una caverna sotterranea: appartiene a qualche regione dello spazio «esterno».» (Il mulino di Amleto, p.227)
Sapevi che, adesso, gli Elivagar sono una zona di Titano, il satellite di Saturno, e Caronte è un satellite di Plutone? Stiamo dando il nome della geografia infera alla regione oscura dello spazio. Ma non è solo “dare un nome”. La geografia sacra stabilita dagli antichi non descriveva solo un piano. Descriveva l’universo intero. Ammira: lo Stige prosegue attraverso le stelle, verso approdi sconosciuti, forse oltre il confine stesso dell’universo. E tutti e cinque i fiumi viaggiano verso quelle soglie misteriose.

Acheron è il nome in codice di LV-426, il satellite che fa da sfondo ai macabri eventi di Alien e Aliens. È un mondo buio, freddo, roccioso, primordiale. Un mondo di demoni, alla fine.
La palude acherontea è sempre stata così. Nessun atto della civiltà l’ha alterata. È una terra preistorica, se ti piace pensarlo.
Acheron è un pianeta vivente in Unreal II. Sottrargli il potente manufatto alieno deposto nelle viscere di questo mondo organico lo fa risvegliare, e dà inizio alla titanica impresa di tentare di abbandonarlo mentre esso tenta di bloccare l’invasore al proprio interno.

«Beh, eccoci. Scendi qui. Sì, qui. Devo tornare all’attracco. Cosa pensavi, che ti avrei riportato indietro? L’obolo è per un viaggio di sola andata. No, sei tu che non hai capito, adesso o scendi dalla mia barca o dovrai guadagnarti l’uscita nuotando con le orecchie. Bene. Addio, probabilmente. Porta con te un buon ricordo del vecchio, severo Caronte. Eh…eh…eh…»
Dai, non preoccuparti. Non ti ho fatto avere la moneta e messo sulla zattera con cui hai attraversato l’Acheronte terrestre solo per farti fare un giro in barca. Volevo che venissi nell’Ade per insegnarti molte più cose. Se non l’hai ancora capito, questo posto è molto più che il luogo in cui vanno le ombre dei morti. È il mondo di tutto ciò che è altro. Ed è infinito. Era qui che saresti dovuto arrivare, prima o poi. Vuoi ancora sapere come farai a uscire, dopo che ti avrò mostrato quello che voglio farti vedere? Ebbene, ho chiesto l’aiuto di un amico. Uno che può attraversare la soglia tra i due mondi come e quando desidera.

Davanti alle pareti rocciose della riva tra il fiume e il baratro, mentre la barca di Caronte è ormai solo un lumicino che si allontana nella nebbia, c’è una figura che prima non c’era. Alta e oscura, sembra ammantata dalle ombre più fitte. Un fulmine sfrigola attraverso la tempesta tartarea in lontananza, un istante di bagliore rivela che lo sconosciuto è fatto solamente, di ombre, che si agitano e si contorcono nonostante egli resti fermo.
Poi parla, e dal suo volto escono migliaia di voci che parlano all’unisono, producendo un’angosciante cacofonia con il contrasto tra le loro tonalità.
«Io sono Ombra, e la mia stanza è a fianco delle catacombe di Tolemaide, e là, là vicino a quelle tristi plaghe d’Averno, che rinserrano l’impuro canale di Caronte!»
Gli chiedi perché sia venuto qui.
«La bestia del labirinto vuole che tu la raggiunga. Prima però dovremo mostrarti la corte degli dèi dell’Oscurità, più antichi e grandiosi di Ade e degli dèi della terra. Poi ti riporterò nell’altro mondo, ma solo dopo che avremo finito. Così ha stabilito quella che ti parla nella mente.»
È vero. Hai visto? Fidati, andrà tutto per il meglio. Sarà un viaggio memorabile. Guardami in faccia.

Bibliografia
Enciclopedia dantesca – Treccani.
Esiodo, Teogonia, traduzione di Graziano Arrighetti, BUR, Milano, 1984.
Giorgio de Santillana, Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, edizione italiana a cura di Alessandro Passi, Adelphi, Milano, 1983.
Virgilio, Eneide, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1967.
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