Gli undici figli di Tiamat – Mostri della mitologia sumera e babilonese

«Ora, altri dèi
erano venuti là dentro
che avevano anch’essi concepito il male
contro gli dèi loro progenie!
In piedi in cerchio
accanto a Tiamat,
furibondi, complottavano senza sosta,
notte e giorno,
spingendosi al combattimento,
battendo i piedi, infuriati,
tennero un consiglio
per programmare la guerra.
La Madre-Abisso,
che aveva formato ogni cosa,
si preparò armi irresistibili:
mise al mondo Dragoni giganti,
dai denti aguzzi,
dalle zanne spietate,
a cui riempì il corpo
di veleno al posto del sangue;
e Leviatani feroci,
ai quali diede spaventoso aspetto,
e che circonfuse di splendore soprannaturale,
equiparandoli così agli dèi:
«Chi li veda,
perda i sensi!
E che una volta lanciati – disse
non indietreggino mai!»
Creò ancora Idre,
Dragoni Formidabili, Mostri Marini,
Leoni colossali,
Molossi rabbiosi, Uomini-scorpioni,
Mostri aggressivi,
Uomini-pesci, Bisonti giganteschi:
tutti brandivano armi spietate
senza tema del combattimento,
i loro poteri delegati, smisurati,
ed essi, irresistibili!
In verità quegli undici
erano proprio tali e quali li fece!»

(Enuma Eliš, Tavoletta I, 127-146)[1]

L’universo è mostruoso.

Sotto patina di scienze rigorose e assiomi inviolabili le cellule teratomiche della materia di cui è fatta ogni cosa pullulano di un’energia oscura che sottometterebbe per sempre la nostra fiducia nell’Ananke che ci relaziona alla materia, se la spessa epidermide del cosmo non proteggesse i nostri occhi. Soli rossi di carne che accecherebbero la nostra anima.

I racconti cosmogonici, cioè quelli che gli antichi misero in poesia per tramandare ciò che credevano, che sapevano, o che avevano intuito su come tutto questo mondo fosse venuto a essere, hanno sempre inizio con entità immani e incomprensibili, che si fondono, copulano, si uccidono e si smembrano fino a quando dalle loro scorie una discendenza dai geni più stabili, per quanto meno potente, riesce a imporre su di loro il metallico giogo della forma, costruendo quella veste di grazia e permeabilità dei sensi che permetterà ai figli dell’umanità di vivere senza sapere quale mare di Caos multiarticolato continui a respirare oltre le maglie della ragione.

Uno dei più antichi racconti di questo genere è l’Enûma Eliš: un poema in lingua accadica proveniente dall’antica Babilonia, ritrovato in tavolette di argilla risalenti al VII secolo a.C. ma elaborato molto prima, ai tempi, si ritiene, della Prima Dinastia Babilonese, vissuta tra il 1894 e il 1595 a.C.[2] All’inizio di ogni cosa, prima che esistessero persino il cielo e la terra, esistevano solo due sconfinate entità primordiali, Tiamat, la madre di tutte le creature, e Apsû: essi mescolavano le loro acque, salate e dolci, infere e celesti, e da loro nacquero le prime generazioni di esseri divini. Se confrontiamo la storia con altri poemi antichi, troviamo molto ricorrente l’idea di due esseri acquatici primordiali, spesso descritti come immani serpenti, come dragoni divini che permeano lo strato più remoto dell’esistenza.[3] Poi, dato che i nuovi dèi erano molti ed erano chiassosi, Apsû concepì insieme a Mummu, la nebbia primordiale che lo serviva, l’intento di ucciderli. Apsû si consultò con Tiamat, ma ella lo redarguì, non volendo disfare le creature che da lei erano state procreate. Apsû e Mummu, dunque, si misero d’accordo per uccidere gli dèi, ma Ea, il signore delle profondità, ordì insieme ai fratelli un piano per uccidere il progenitore prima che potesse attuare le sue intenzioni, e incatenare Mummu. Il corpo di Apsû divenne il mondo sotterraneo. Poi Ea si unì alla dea Damkina, e dai due nacque Marduk, colui che superava chiunque in grandezza e splendore; e Anu, il signore del cielo, creò i Quattro Venti, che Marduk scagliò intorno al cosmo per divertirsi, disturbando Tiamat. Allora le divinità ancestrali che dimoravano accanto a Tiamat si riunirono davanti a lei, consigliandole di vendicare l’uccisione di Apsû e punire Marduk, il loro nuovo tormento. Tiamat fu lieta di assecondarli, e generò così da sola undici mostri, undici stirpi di creature che avessero il potere di combattere contro gli dèi. A loro capo pose Qingu, come dodicesimo, e gli affidò le Tavolette del Destino, lo strumento che conferiva il titolo di dominio sull’universo.

Tiamat perse. Marduk la imprigionò in una rete e inviò contro di lei il demone del vento Imhullu, che le fece spalancare la bocca: poi vi entrò e le recise i fianchi con un falcetto. La parte al di sopra del taglio fu posta sopra il mondo per fare il cielo, la parte al di sotto fu posta sulle acque per formare la terra. Infine Marduk uccise Qingu, mischiò il suo sangue con l’argilla e ne fece gli esseri umani, affinché lavorassero e gli dèi potessero appartarsi nelle loro dimore, per godere il frutto delle loro fatiche.

Quanto agli undici mostri, Marduk ottenne la loro obbedienza. Li neutralizzò, spezzò le loro armi, li incatenò e ne fece immagini che appose sulle Porte dell’Apsû, perché nessuno li dimenticasse mai. Vennero integrati nel disegno divino di Marduk, svolgendo così ruoli a beneficio delle divinità e della loro nuova creazione. Nel tempo, le lingue cambiarono, le città decaddero, i culti cambiarono oggetto, gli dèi mesopotamici furono o dimenticati o ribattezzati in altre lingue; forse solo Marduk è rimasto popolare, riverito peraltro da alcune delle religioni oggi più diffuse al mondo. Nessuno andò a dire ai mostri che gli dèi erano andati via, che potevano tanto continuare a servirli quanto provare a vendicarsi per essere stati posti in quello stato subalterno. Ma forse a loro non interessava più, perché avevano perso le loro armi e si erano adattati al nuovo compito. Alcuni di loro rimasero sepolti sotto le sabbie e le polveri, condividendo il destino della civiltà dei due fiumi; altri, sulle navi dei viaggiatori o nelle eburnee vie del sogno, raggiunsero altre terre e continuarono a evolversi. E forse, nonostante quanto tempo sia passato, ci è già capitato di incontrarli.

Essi sono:

Bašmu, i serpenti marini.

Mušḫuššu, i draghi.

Mušmaḫḫū, le idre.

Ušumgallu, i leodragoni.

Laḫmu, gli uomini dell’acqua.

Ugallu, i demoni leone.

Uridimmu, gli uomini cane.

Girtablullû, gli uomini scorpione.

Umū dabrūtu, gli spiriti della tempesta.

Kulullû, gli uomini pesce.

Kusarikku, gli uomini bisonte.

(I mostri i cui nomi non sono evidenziati devono ancora essere sbloccati: seguite le pagine social dell’Anima del Mostro per scoprire quando verranno dominati di nuovo.)

Immagine promozionale di MSI Gaming per una linea di prodotti ispirati al tema della mitologia babilonese. La maggior parte delle raffigurazioni dei mostri è inaccurata, ma rende l’idea del gruppo nel suo insieme ed è un raro caso in cui sono stati rappresentati insieme tutti i mostri.

Alcune generalità

Dal punto di vista storico, i mostri dell’Enûma Eliš non nascono come parte di questo mito. L’elenco del poema babilonese sembra avere un’esigenza numerica in virtù della quale seleziona alcuni dei mostri più diffusi della sua cultura da inventari precedenti di origine sumera. In questi elenchi si trova una sequenza piuttosto coerente di nomi di mostri, alcuni dei quali non sono presenti nell’Enuma Eliš; ai mostri sumeri il poema accadico aggiunge alcuni nomi in più per portare il loro numero a undici, dodici insieme a Qingu, probabilmente per adombrare un significato astronomico, dato che alcuni di quei mostri portano il nome delle costellazioni.[4] Precedentemente avevano storie diverse, e molti di loro avevano già una storia nella letteratura e nell’arte dei Sumeri: compaiono nel testo di rituali esorcistici per proteggere le case e tenere lontani altri esseri ostili, come i demoni delle malattie, grazie alla loro ferocia. Un cambiamento importante è riflesso dal fatto che nella cultura sumera molti dei mostri della lista provenivano dalle montagne, come del resto lasciano intendere le loro fisionomie, costruite soprattutto sui serpenti e i leoni, ma nella prospettiva dei popoli semitici era il mare a costituire la principale insidia naturale e dunque l’avversario degli dèi nelle storie sui grandi conflitti primordiali. Questo fa sì che proprio con l’Enuma Eliš l’origine dei mostri venga spostata nel mare, personificato appunto da Tiamat. L’idea che creature a forma di leone o di bisonte emergano dal mare potrebbe entrare in conflitto con il nostro buonsenso, ma non ho mai potuto fare a meno di trovarla fortemente suggestiva. Ci ricorda il sentimento di sgomento degli antichi verso il mare, a cui anche la cosmologia greca riconduceva l’origine delle sue creature mostruose, come si può trovare nella Cosmogonia di Esiodo, e si presta anche a una lettura astronomica, perché ciò che viene da sotto il mare, nel linguaggio del mito, è ciò proviene da sotto la linea dell’equatore celeste, cioè le costellazioni dell’emisfero australe, che a sua volta coincide con gli inferi, l’Apsû.[5]

Come gruppo, i figli di Tiamat sono chiamati gallû, soldati.[6] I loro nomi, come vedremo, hanno tutti la particolarità di designare un animale normale, enfatizzandone una qualità come ad esempio la ferocia, senza fare riferimento alle caratteristiche mostruose e chimeriche che lo distinguono dalla sua controparte naturale. Il riferimento all’animale, a sua volta, ha lo scopo di richiamare un concetto astratto al quale la specie reale è associata: designando il mostro con il nome dell’animale, ma distinguendolo dalla sua versione più semplice, si richiama così l’unità simbolica animale-concetto astratto. o, hanno suggerito a Frans Wiggermann, l’assiriologo che sarà la nostra guida principale in questo viaggio, che all’origine della loro elaborazione ci fosse un fenomeno religioso. In una prima fase il nome della creatura reale, ad esempio il serpente, muš, indicava la categoria, riassunta in senso emblematico per indicare il suo simbolismo, la morte violenta (un po’ come “il Serpente” nel Genesi è un personaggio che svolge un ruolo simbolicamente riflesso dall’intera categoria).[7] Proprio la necessità figurativa di rappresentare questo esemplare simbolico, rendendolo riconoscibile nel suo significato religioso e dunque diverso dall’animale reale sarebbe, secondo Wiggermann, all’origine della fisionomia composita dei mostri, accresciuti iconograficamente da elementi estranei – ad esempio le parti di leone che distinguono il muš mitologico dal serpente ordinario, creando così il drago – che posseggono a loro volta un significato (nel caso del drago, la forza aggressiva del leone amplifica il significato di morte del serpente). Secondo Thorkild Jacobsen, in un primo tempo i mostri erano addirittura la rappresentazione iconologica degli dèi, e solo dopo, con il passare del tempo, vennero separati da essi diventando simboli di un codice, piccole bestiole rappresentate in un angolo per chiarire l’identità del dio, o talvolta cavalcature sul cui dorso si spostava.[8]

In ogni caso, l’Enûma Eliš ci ha fornito qualcosa di molto affascinante, un sistema, un sistema in cui quella selezione di nomi può fornire una chiave per decodificare qualcosa dell’universo in cui vivevano gli antichi babilonesi, che, nonostante tutto, è ancora il nostro. Nell’Anima del Mostro, questi undici rappresentano undici mondi, undici livelli, undici criteri, sovrapposti ad altrettante designazioni in sistemi come la Kabala e la cosmologia nordica, intorno ai quali costruire la struttura che questo portale adotterà. Ecco con quale intenzione vi presento oggi, con una sezione di ampio approfondimento per ciascuno, gli undici figli di Tiamat, la madre di tutti i mostri.

Introduzione ai draghi sumeri

La maggior parte di questi mostri è nominato in diversi testi rituali, contenenti formule di esorcismo contro gli spiriti maligni e le malattie, oppure di invocazione di entità protettive per custodire la casa e i suoi abitanti. Inoltre, accanto a essi, la lingua sumera conosce altri teratonimi che qui non compaiono. L’Enûma Eliš opera una selezione, e aggiunge i nomi di tre mostri, mušmaḫḫū, ušumgallu e umū dabrūtu per raggiungere il numero undici.

I primi quattro nomi dell’elenco della progenie di Tiamat sono tutti mostri serpentini, spesso definiti come “serpenti cornuti”. Bašmu, Mušḫuššu, Mušmaḫḫū e Ušumgallu attestano in quest’area un motivo che è stato scoperto anche presso i Celti, dove esistono raffigurazioni di serpenti con corna da ariete che accompagnano spesso quelle del dio Cernunnos, anch’egli provvisto di corna e legato alla fertilità[9], nonché presso i nativi americani, dove sono ben attestate le storie sugli Unktehila.[10] In realtà, i draconimi nel mondo mesopotamico sono numerosissimi, e ne esistono ben più di quattro, anche se alcuni sono usati sinonimicamente. I draghi sono guerrieri[11], una delle forze che gli dèi inviano per aiutare gli eroi quando pregati, come si legge nel Gilgameš [12].

“In course of time minor variations were incorporated which served mainly to distinguish the dragon of one god from of another; but it is at once obvious that the dragons of later all derived from two main types, the leonine and the ophidian.”[13]

Alla base dei nomi dei quattro draghi c’è la stessa parola, il sumero ušum, che significa “serpente velenoso”. A sua volta essa è un prestito dall’accadico, proveniente da una parola ricostruita come *wašm. Accanto a essa la parola sumera muš, di identico significato. Sui draghi c’è anche questa indicazione bibliografica.[14]

Bašmu

La prima stirpe di mostri generata da Tiamat nell’Enûma Eliš sono i Bašmu. La loro rappresentazione è più variabile di altre, ma si può ricondurre a due tipologie di creature rappresentate entrambe come serpenti cornuti, una senza arti, l’altra dotata anche di due zampe anteriori nonché, occasionalmente, di ali. Il bašmu è un distruttore in cui Tiamat ha posto micidiale veleno al posto del sangue, e tale è il significato del suo nome, “serpente velenoso”.

Il nome bašmu è accadico ed è usato nelle traduzioni di due parole sumere differenti che forse avevano sfumature semantiche diverse, ušum, il termine più comune per i serpenti, e muššatúr, che significa “serpente della dea della nascita”. Dei due è il primo che sembra indicare il serpente con le zampe, chiamato talvolta anche semplicemente muš e, per questo, sovrapposto in molti casi all’altro drago, il mušḫuššu. A differenza di quest’ultimo, noto per essere il compagno e il simbolo di diverse divinità, il bašmu non sembra avesse un ruolo simile più anticamente, e forse nasce proprio per indicare il serpente velenoso da cui l’uomo deve guardarsi. Solo più tardi, quando il mušḫuššu diviene l’attributo di Marduk, il bašmu passa a essere l’accompagnatore delle divinità del sottosuolo cui in origine era associato l’altro drago. Un poema frammentario proveniente da una tavoletta del periodo medio-assiro (KAR 6) racconta un mito in cui il dio Nergal viene incaricato di uccidere un enorme mostro marino chiamato bašmu, in modo simile al ben più antico poema del Labbu, che è invece piuttosto un mušḫuššu.[15]

Il bašmu dà poi il nome a una costellazione babilonese, pressappoco sovrapponibile a quella greca dell’idra, Hydra, chiamata in sumero mulMUŠ, con il determinativo “mul” che indica le stelle (e vale la pena dire che in molti testi il drago è indicato come dMUŠ, cioè con la determinazione degli dei). In un sigillo persiano la costellazione è rappresentata con le sembianze del bašmu inteso come un drago, dotato di corna, due zampe e due ali, sormontato da un leone che indica la presenza della costellazione più vicina. Si potrebbe insomma paragonare il bašmu ai vari sottotipi alternativi al drago che abbondano nel fantasy odierno, e in particolare a quello chiamato, con prestito dall’immaginario scandinavo, lindworm. Nella mia resa l’ho definito serpente marino: è un drago, nel senso più ampio, ma distinto dalle sue qualità maligne e dalla mancanza della fisionomia di animale quadruopede dal mušḫuššu, che si può considerare invece come la creatura più vicina alla nostra concezione di drago tra quelle di questo bestiario.

Il dio della tempesta, armato di fulmini, combatte un Bašmu, sigillo neoassiro del XI-VIII secolo a.C.
Bašmu alato che rappresenta la costellazione di MUŠ, corrispondente alla nostra Hydra, da un sigillo sasanide.

Mušḫuššu

Mušḫuššu, che significa “serpente furioso” o, ancora meglio, “serpente che ispira il sentimento del terrore meraviglioso, dell’awe”, è il più celebre e ricorrente drago dell’antica Mesopotamia, e parlare esaustivamente di lui richiederebbe un articolo lungo quanto questo, giacché, tra le tante ragioni di interesse, è il diretto antenato del drago per come lo immaginiamo ancora oggi. Uno dei simboli più riconoscibili del mondo babilonese grazie alla sua rappresentazione sulla Porta di Ištar a Babilonia (576 a.C.), è riconoscibile per le sue fattezze composte da un corpo squamoso come quello di un pesce, zampe anteriori di leone, zampe posteriori di aquila e coda, collo e testa di serpente sormontata da due corna. È anche abbastanza risaputo che sia il simbolo del dio Marduk, vincitore di Tiamat, ed esistono un paio di teorie criptozoologiche che vogliono che all’origine della sua figura ci sia qualche dinosauro. Permettetemi adesso di dimostrarvi come il mušḫuššu sia molto più interessante di così.

Prima di combinare così tante province separate del mondo animale, il mušḫuššu consisteva nell’accostamento di due sole specie, il serpente e il leone. I più antichi esempi ricondotti alla sua simbologia sono i cosiddetti serpopardi, cioè felini con un lungo collo spiraleggiante simile a quello di un serpente. È una questione molto ampia, e che serve profondamente a comprendere molte delle creature che vedremo, come il serpente e il leone siano piuttosto assimilabili tra loro, nelle culture mesopotamiche: gli esempi provengono soprattutto dalle lingue semitiche, ma anche il sumero conferma questo dato. Esempi di forza predatoria ed efficienza nell’uccidere, accomunati anche dal terrore che provocano nell’uomo, tale da paralizzarlo davanti a loro, i due animali sono epiteti di grandi guerrieri e divinità nella letteratura sacra, e i draghi mitologici sono descritti spesso con caratteristiche di entrambi.[16] Van Buren, autore di una trattazione monografica sui draghi dell’antica Mesopotamia, individua non per nulla due tipologie originarie di drago che ritiene alla base degli sviluppi successivi, quella serpentina e quella leonina. Ed è infatti frequente, nella letteratura archeologica, usare i termini “serpente-drago” e “leone-drago” per indicare due macrotipi iconografici che non sempre possono essere ricondotti a nomi specifici; il serpente-drago, comunque, è generalmente il nostro mušḫuššu, mentre il leone-drago coincide con l’ušumgal che vedremo più avanti.

È Wiggermann ad avere ricostruito in una serie di passaggi la transizione iconografica del mušḫuššu.[17] Dopo il serpopardo si assiste allo stabilirsi della forma classica del mušḫuššu (antico periodo accadico, III millennio), un animale quadrupede coperto di squame molto evidenti con lunga coda, lungo collo, testa di serpente e corna visibili. Quando non sono abbozzate, le sue zampe anteriori sono modellate su quelle del leone, mentre le posteriori sull’aquila. Il discorso sulle corna ha molte sottigliezze: dato che è sempre raffigurato di profilo, le corna possono essere interpretate anche come tre o quattro, e ci sono ipotesi sul fatto che non siano affatto corna, dato che Heuzey vede nella prima protuberanza un paio di piume e nella seconda il ricciolo che adorna anche gli dèi come segno del loro stato.[18] Sempre Heuzey ha notato come a volte i mušḫuššu abbiano forme delle corna differenti, che potrebbero indicare la loro affiliazione a divinità differenti. Sembra che il primo dio a cui venne associato il serpente-drago fosse Ninazu, dio della fertilità e del sottosuolo a cui era sacra la città di Ešnunna. In antichissimi esempi iconografici, Ninazu e altre divinità dello stesso ambito sono rappresentati con teste di drago che emergono dalle loro spalle o con una coda al posto delle gambe. Intorno al XXI secolo a.C. il mušḫuššu viene associato a Ningišzida, figlio di Ninazu e anch’egli dio pertinente alla stessa sfera: è a questo periodo che risale il Vaso di Gudea, un recipiente da libagione dedicato proprio al dio Ningišzida, estremamente importante in termini di storia iconografica per due motivi, la prima rappresentazione di un caduceo e il primo drago a sei arti. I due serpenti avvolti intorno al bastone al centro dello schema compositivo sono, a detta di molti tra cui Van Buren, un antichissimo simbolo di fertilità che raffigura in realtà l’accoppiamento tra un maschio e una femmina, e che infatti nel mondo mesopotamico ha anche un significato nuziale.[19] I due draghi, dal lungo corpo di serpente eretto sulle zampe posteriori mentre con le anteriori tengono le aste tra cui è inscritto il caduceo, hanno le teste da serpente del mušḫuššu con il ricciolo e un copricapo, e sulle spalle hanno un paio di ali piumate.[20] Questa immagine io ritengo che sia profondamente significativa, proprio perché anticipa il drago a quattro zampe e dotato di ali che in Europa vedrà la luce solo nel medioevo, e che nello stesso tempo diventerà la sua raffigurazione più diffusa in occidente fino al presente. Accanto a questo esempio, peraltro, nei sigilli si trovano altri mušḫuššu alati.

Nel corso dei secoli, con l’inevitabile mutamento dei culti religiosi, ma degli equilibri politici, la descrizione delle divinità andò cambiando, e anche i mostri si trovarono a essere associati all’una o all’altra in un modo che simboleggiava un evento storicamente accaduto. Così, quando la città di Ešnunna venne conquistata, fu al dio guerriero Tišpak che venne associato il serpente-drago. È a questa fase che risale un poema frammentario conservato nella tavoletta CT 13, comunemente chiamato “L’uccisione del Labbu”, che racconta l’impresa di Tišpak di affrontare un gigantesco drago cosmico chiamato Labbu.[21] Molto dibattuto anche per i suoi elementi di confronto con il più tardo Enuma Eliš e altri testi antichi dedicati a una dracomachia, il poema del Labbu suggerisce non solo che il suo drago sia un mušḫuššu, ma ne conferma gli elementi in parte ofidici e in parte leonini, tra cui le orecchie, descrive quella che potrebbe sembrare un eclissi allorché il volto di Sin, dio della luna, si oscura – ed è dunque un’antica occorrenza del motivo del drago che provoca le eclissi, sopravvissuto fino all’astrologia moderna – e potrebbe addirittura descrivere una costellazione draconica di cui altrimenti sapremmo davvero poco, in quanto la creatura misura molte miglia, emerge dal mare ed è costruita da Enlil, dio dell’aria.

Dopo l’ascesa dei babilonesi nel secondo millennio fu Marduk, il loro dio, a essere imposto a capo del pantheon, portando così alla composizione dell’Enuma Eliš tra il 1894 e il 1595 a.C., e fu allora che proprio al dio uccisore di Tiamat venne attribuito come simbolo il serpente-drago. Accanto a lui, il mušḫuššu poteva rappresentare anche Nabu, figlio di Marduk e dio della scrittura.[22] È interessante, in una prospettiva comparatistica, notare come l’integrazione, nel mušḫuššu, di animali provenienti dai diversi livelli del cosmo si possa leggere come rappresentazione di un dominio sulla sua totalità, e che il simbolo del drago, con fattezze composite e un simile significato, accompagna la regalità anche nei simboli dell’impero cinese, dei sovrani persiani e di altre culture ancora.  Prima ancora, però, era stato il simbolo di Ninazu, e poi di suo figlio Ningishzida, dèi sumeri ctoni dell’oltretomba, la cui iconografia adotta spesso il simbolo del serpente[23].

Nell’Enuma Eliš, Tiamat conferisce al mušḫuššu un attributo particolare come il veleno dei bašmu, e cioè un’aura di terrore intorno al volto, tale che chiunque li guardi non può che cadere in preda allo sgomento. Questo dettaglio potrebbe passare oltre la nostra attenzione, dato che sembra quasi eufemistico dire che queste creature sono davvero spaventose, eppure il fatto che i draghi abbiano un potere di incutere una paura così profonda insito in qualche modo nella loro testa è un tratto molto più pervasivo di altri, e lo ritroviamo praticamente ovunque si parli di loro, dall’anguiforme Medusa ellenica con lo sguardo pietrificante a Fáfnir, che nei poemi eddici scandinavi è dotato del famigerato “Elmo del Terrore”, fino a Muirdris, una creatura dell’epica irlandese talmente spaventosa da deformare a vita il volto di chi la vede. Il fatto che ancora oggi, nel gioco Dungeons & Dragons, esista una regola specifica che stabilisce che tutti i veri draghi sappiano utilizzare un potente effetto chiamato “Aura terrificante” che impedisce la reazione di chi li vede è solo la più recente delle prove che, nel pensiero umano, il drago è definito anche da questa proprietà.

Nei testi rituali il mušḫuššu era considerato una specie di angelo della morte inviato dagli dèi dell’oltretomba: con il suo veleno, un’arma di potere divino, era rapido e infallibile nel sottrarre la vita, e allo stesso tempo la sua ferocia lo rendeva un protettore perfetto, raffigurato a guardia dei templi e invocato in soccorso contro gli spiriti maligni.[24]

 Un piccolo dettaglio avvicina enormemente questo antico drago orientale alle storie che abbiamo più familiari: esiste un testo che menziona un fiume dell’aldilà il cui nome, non riportato, si traduce come “casa di pace in cui il mušḫuššu raccoglie gemme preziose”, che ci restituisce anche l’immagine di un custode di tesori.[25]

Mušḫuššu sulla porta di Ištar, museo di Pergamo.
Testa di mušḫuššu del VI secolo a.C., museo del Louvre.
Mušḫuššu alato dal vaso di Gudea, 2100 a.C. circa, Museo del Louvre.

Mušmaḫḫū

Il mušmaḫ, terribile idra, è il quarto drago dell’elenco dei figli di Tiamat. Insieme all’ušumgallu e all’umū dabrūtu, uno dei tre teratonimi aggiunti alla lista per aumentare il numero di creature a undici, dodici con Qingu.[26] Il suo nome, che al plurale è mušmaḫḫū, significa “serpente esaltato tra gli altri”, e in alcuni testi viene usato intercambiabilmente con altri nomi di drago, ma le sue valenze specifiche sono forti, in quanto, come si legge in un inno a Ninurta che parla del “mušmaḫ con le sette teste”, viene identificato con il rettile policefalo che si incontra in molte rappresentazioni. In alcune è solo un serpente, ma in alcuni sigilli sopravvive la concezione di un altro mostro chimerico, un drago a sette teste con un corpo a quattro zampe simile a quello di un leone, ricoperto di macchie o di squame, come anche il mušḫuššu, ma unico perché dal suo dorso risalgono linee ondulate; secondo una delle letture possibili, quelle sono lingue di fuoco.[27] Un’iscrizione di Gudea lo definisce una creatura delle montagne, che sono il luogo di provenienza dei mostri e degli avversari nella prospettiva sumera, prima che la cultura semitica li collocasse nel mare.[28] Secondo le invocazioni, era raffigurato con pietre di lapislazzuli e oro. L’elemento a cui viene paragonato più spesso è la mazza a sette fruste utilizzata da divinità come Ninurta, e poiché sia il mostro che l’arma sono stati paragonati a una nube tempestosa, Van Buren suggerisce che il mušmaḫ sia un drago che incarna il potere distruttivo del tempo atmosferico, differentemente dall’ušumgal che invece veicola l’acqua fertile della pioggia.[29] Questo rende l’idra un drago “caduto dalla grazia”, un’incarnazione della tempesta che perseguita gli uomini, nella prospettiva in cui il mušḫuššu e l’ušumgal esprimono la natura vitale e benefica dell’acqua.

« The hydra should be regarded as the Fallen Angel among dragons. The hydra had fallen from grace, for in it all the beneficent qualities of the dragon, which it resembled in every respect save for the multiplicity of its heads, were deflected to evil purposes. Instead of bringing fertilizing showers and streams, the muš-mah signified storm-clouds and tempest, overwhelming rivers and floods, thus “bringing death”.»

Diversi studi ritengono che proprio dalla circolazione di questa figura, e forse del mito associato, che vede l’eroe Ninurta sconfiggerlo con una mazza, deriverebbe lo scontro tra Eracle e l’Idra di Lerna nella mitologia ellenica.[30] Il tema del serpente a sette teste ha un respiro troppo ampio per esaurirlo qui, ma c’è una considerazione che possiamo fare. Il numero sette è sacro nella cultura sumera a partire già dal terzo millennio a.C.[31] Accanto al suo valore astronomico relativo ai sette pianeti non vanno sottovalutate le proprietà matematiche: nel calcolo sumero, a base esagesimale, il sette è il primo numero naturale a non avere un reciproco esprimibile in una frazione esagesimale finita, bensì come una frazione.[32] Figure mostruose dotate di sette teste sono un quasi universale che è stato scoperto in raffigurazioni di tutto il mondo.

Curiosamente, in alcune raffigurazioni esistono idre a tre e quattro teste; Van Buren avanza l’affascinante ipotesi su “idre immature”, che delineerebbe davanti a noi uno squisito ciclo naturale in cui i mušmaḫḫu acquisiscono tutte le loro teste con il passare dell’età; le alternative sono un vincolo figurativo o l’esistenza di altre varianti, che però non sembrano divergere molto dal punto di vista simbolico, visto che i mušmaḫḫu sono sempre rappresentati nel ruolo del nemico, davanti a un guerriero o a degli animali che stanno venendo cacciati.[33]

Nelle civiltà mediorientali, la concezione del grande serpente come immagine del caos primordiale si manifesta in modo tendenzialmente affine a quello mesopotamico: nella mitologia ittita, il dio del cielo Tarhunt affronta Illuyanka[34], mentre nel ciclo ugaritico di Baal figura la divinità Yam[35], e al suo servizio il mostro Lotan; tutti condividono la forma serpentina e il legame con l’oceano, e dunque il caos, che caratterizzano Tiamat, e in più, Lotan ha sette teste[36], forse mutuate dalle tipologie di drago policefalo mesopotamiche, o da una precedente base comune. Illuyanka, poi, viene ucciso dopo essere stato fatto ubriacare dal rivale[37], il che richiama il mito giapponese di Yamata no Orochi (八岐の大蛇), il serpente a otto teste che viene ucciso dal dio-eroe Susanoo nel Kojiki, grazie allo stesso espediente[38], in modo da impedirgli di divorare la vergine che gli è stata destinata. Nella sua coda, Susanoo trova una spada.

Sigillo di Tel Asmar del 2200 a.C.

Ušumgallu

Ušumgal significa, alla lettera, “grande ušum”, dunque “grande serpente velenoso”. L’enfasi comportata dall’aggettivo fa sì che sia un termine molto più ricorrente, nel linguaggio poetico, di altri draconimi come il semplice ušum, e che occasionalmente venga usato come nome del mušhuššu, ma soprattutto come epiteto riferito a re e dèi, connotati così come la prima e più temibile tra le bestie feroci.[39] Un’identità distinta proviene all’ušumgal dalla sua identificazione con un tipo iconografico, un mostro che viene altrimenti chiamato “leone-drago”, distinto dal più comune “serpente-drago” per la sua struttura compositiva. Il leone-drago è un mostro chimerico dotato della testa, del corpo e delle zampe anteriori di un leone, delle ali zampe posteriori di un’aquila e di una coda, solitamente quella di un uccello ma, in alcune varianti, anche quella di uno scorpione. Altre variazioni possibili prevedono la presenza di corna e una struttura alare alternativa, simile a quella delle cavallette: in un anno a Ninurta, si legge la formula “l’ušumgal con le zampe di leone, il grillo gigante con le ali spiegate”.[40] In alcune raffigurazioni questo mostro sputa un getto d’acqua dalla bocca, che lo qualifica come rappresentazione della pioggia.

Il leone-drago nasce infatti come cavalcatura del dio accadico della tempesta Adad, il cui nome sumero è Iškur. Originariamente aveva fattezze meramente leonine, acquisendo le parti da uccello secondo un processo che dovette essere parallelo o analogo a quello del mušhuššu. Veniva chiamato anche ka- d u h – h a /kaduhhû/ ûmu na’iru, “bestia metereologica con la bocca aperta/bestia meteorologica ruggente”.[41] Dopo il secondo millennio, il simbolo di Adad diventa il toro, e il leone-drago viene identificato sempre di più con l’uccello Anzû, un mostro estremamente importante nella mitologia mesopotamica sul quale dirò di più nell’Appendice alla fine dell’articolo. Anche Anzû è un simbolo della tempesta, caratterizzato dalla testa di leone mista a fattezze di aquila, e la sua rappresentazione più nota, proveniente dal tempio di Ninurta, è quella di un essere leonino con le ali e le zampe posteriori da rapace. Originariamente, durante il terzo millennio, Anzû era un uccello con la testa di leone, ed è proprio quando il leone-drago smette di rappresentare Adad che le sue caratteristiche confluiscono nell’uccello Anzû. Il che determina una variazione di paradigma, perché Anzû è una creatura avversa agli dèi.[42]

Nel periodo neo-assiro si assiste alla differenziazione di due varianti del leone-drago, una munita di coda da uccello rapace, che rappresenta il malvagio uccello Anzû, e una dotata di coda da scorpione, descritta esplicitamente come ušumgal, che funge invece da destriero di Ninurta, notoriamente nemico di Anzû.[43] Inoltre, l’ušumgal compare su tre amuleti nel ruolo apotropaico che di solito ha Pazuzu, quello di protezione contro la malvagia demonessa Lamaštu. La testa di leone è un attributo di entrambi di demoni, e sembra che, in età neosumera, l’immagine del leone-drago si sia combinata con quella dei demoni leontocefali nel crearne una varietà bipede, una rappresentazione iconografica della malaria dotata testa di leone cornuta, le zampe al posto delle mani, gli artigli aquilina e la coda piumata.[44] Come osservato da Van Buren, un mostro di questo tipo smette di poter essere considerato un drago.

Un grande interrogativo che mi accompagna sempre a proposito dell’ušumgal è per quale motivo un leone del tutto privo di caratteristiche rettiliane venga chiamato con il nome del serpente e considerato un drago. Benché l’origine di questa iconografia sia sumera, credo che la cultura accadica offra almeno parte della soluzione: nelle lingue semitiche, come si può osservare nella Bibbia, la parola per “leone” può significare anche “predatore” nel senso più ampio, e questo fa sì che si trovino espressioni in cui altri potenti cacciatori del mondo naturale vengono chiamati “leone” rispetto al loro ambiente: l’aquila è il leone dell’aria, mentre il serpente è il leone della terra o anche dell’acqua.[45] Credo questo non sia ininfluente nella combinazione di tratti del leone e dell’aquila in una creatura considerata un superpredatore che viene chiamata “grande serpente”, e che è all’origine di una creatura molto simile all’ušumgal, il grifone, che pure esiste nell’iconografia mesopotamica ma non fa parte di questo novero, per cui il nostro incontro con lei dovrà attendere.

Nell’Enuma Eliš anche gli ušumgallu sono aggiunti ai tradizionali elenchi di mostri per portare il numero a undici, ma si può dire, per quanto il termine abbia una connotazione ampia, gli esempi che abbiamo trovato permettono di identificarlo con un tipo di mostro ben individuabile. Volendo forzare la lettura di questi materiali, magari nell’ottica di una loro reinterpretazione che ci permetta di raccontarli in modo nuovo, potremmo immaginare che, così come tra i mušhuššu vi era un esemplare distinto nella forza e nell’aspetto di nome Labbu, anche Anzû fosse un esemplare straordinario di ušumgal (a patto naturalmente di ricordare che le due figure erano nate distinte e finirono per combaciare solo dopo molti secoli di elaborazione). A proposito del Labbu: questo nome, originariamente, designava la leonessa, e solo in seguito è passato a fungere da appellativo del leone ‘mitico’ contrapposto a quello ‘comune’.[46]

Eroe caccia un mostro a cavallo di un Ushumgallu, con le ali da uccello e la coda da scorpione, sigillo Morgan, 1000-700 a.C.

Laḫmu

Laḫmu significa “il peloso” ed è un caso piuttosto particolare, dato che è l’unico degli undici mostri ad avere una fisionomia umana.[47] Viene raffigurato come un uomo nudo, dal corpo villoso, riconoscibile per la chioma ondulata, e viene identificato dagli assiriologi come “eroe nudo”. Il suo studio è problematizzato anche dal fatto che la prima coppia di figli di Tiamat e Apsû nell’Enuma Eliš, che non ho menzionato in apertura e che fanno da progenitori alla stirpe di dèi successiva, ha come nomi Laḫmu e Laḫamu. Si tratta infatti di una parola semitica, che era stata adottata dal sumero durante il terzo millennio nella forma laḫama, e che forse venne estesa alle due divinità figlie di Tiamat per un legame con l’acqua. Secondo Wiggermann, l’eroe nudo dell’iconografia poteva essere inizialmente uno spirito fluviale con una particolare dimestichezza con gli animali sia selvatici che domestici, dato confermato da alcuni testi rituali. Il ricciolo che lo caratterizza, e che è lo stesso che in alcuni si trova anche nel mušḫuššu, serve a rappresentare l’acqua e la vitalità. Nel mio associare gli undici mostri babilonesi a categorie a noi familiari, come i draghi e le idre, sarei tentato di chiamare il laḫmu “uomo selvatico”, per il suo aspetto peloso, il suo legame con la natura e la cura degli animali, ma è importante tenere a mente che il suo elemento sono le acque sotterranee dell’Apsû, dominio del dio Ea, cui infatti l’uomo peloso è spesso associato. Come gli altri mostri, alcuni sigilli raffigurano i laḫmu in lotta con gli dèi, e benché il loro nome venga spesso accompagnato, come quello del mušḫuššu, dal determinativo delle divinità, essi sono sempre rimasti esclusi dalla categoria.

Si incontrano dei laḫmu nel poema accadico Atra-ḫasīs, del XVIII secolo a.C., dove sono ai diretti ordini di Ea, e questi arriva a punirli per aver permesso che i pesci del mare sfamassero la popolazione affamata.[48]

Statua di Laḫmu risalente al 900-612 a.C, British Museum.

Ugallu

L’ugallu, il demone leontocefalo, è forse la figura dietro l’iconografia dei demoni che conosciamo oggi. Compare nelle raffigurazioni come un essere antropomorfo con la testa di leone, privo di criniera e dotato di lunghe orecchie appuntite asinine. In alcuni testi e nelle raffigurazioni gli vengono aggiunti artigli di rapace nei piedi, e altri gli conferiscono una mazza nella mano destra, un’accetta nella sinistra e una daga portata alla cintura.[49]

La forma del nome più utilizzata è accadica, ed è un prestito dal sumero u-gal, che significa “grande (gal) belva della tempesta (ud’)”. Wiggermann utilizza l’espressione weather-beast, “belva del tempo atmosferico”, per via del fatto che questi esseri possono portare anche il bel tempo. Alla categoria delle “belve della tempesta” appartengono diversi altri demoni, tutti caratterizzati in qualche modo dal possesso di fattezze leonine, secondo l’antica analogia tra il tuono e il ruggito del leone. Il dio sumero della tempesta è Iškur, al quale questo e altri mostri sono fortemente associati al punto che, in alcune iscrizioni, ci si riferisce al dio con il nome U-gal-gal. In iscrizione bilingui più antiche, la forma accadica di u-gal è ûmu rabû, il che porta Wiggermann a ritenere che ugallu sia un termine inventato in seguito per riferirsi a una “belva della tempesta” in particolare, forse quella in possesso di tutti gli attributi che ho elencato, diversa dalle altre ud’. Sembra che le ud’ siano nemiche di  Šamaš, il dio del sole, e delle creature a lui legate, ma anche che gli ugallu appaiano talvolta mentre attaccano personaggi umani malvagi. Il testo di un incantesimo li descrive come cacciatori temerari che combattono instancabilmente il male e tengono i nemici fuori dalle entrate, il che è sicuramente legato alla ragione per cui uno di loro, Bidu, è l’apriporta dell’aldilà.

L’interpretazione mitologica che ne dà Wiggermann è quella di personificazione dei giorni, giorni sereni di bel tempo che incoraggiano le pratiche religiose degli uomini, da cui deriva il favore degli dèi, e giorni tempestosi che impediscono questo corso di eventi. La tempesta viene dunque personificata con l’invio da parte di Iškur di mostri simili a leoni ruggenti, dove, accanto agli ugallu, ci sono gli ušumgallu che vomitano dalle loro fauci l’acqua della pioggia e possono causare devastanti alluvioni. Wiggermann rimarca che alla base della concezione degli ud’ c’è il concetto religioso secondo il quale eseguire gli ordini divini sia il fondamento della loro esistenza.

L’ugallu compare in alcune tavolette accanto al dio Lulal. Questa associazione è affascinante, perché Lulal è un dio lunare, in qualche modo connesso anche a Inanna e, benché solitamente il suo aspetto sia antropomorfo, Lulal è recepito come divinità degli animali selvaggi, e alcuni testi lo identificano con Lutarak, un dio accadico che forse deriva proprio dalla traduzione semitica di Lulal, e che viene rappresentato anche come un ugallu: occhi moderni potrebbero scorgere in tutto questo una specie di prefigurazione della licantropia.[50] Oltre al fatto che, mentre la costellazione del lupo è chiamata UR.IDIM, come il mostro Uridimmu il cui nome contiene la parola ‘ur’, che può essere tradotta come ‘cane’, ‘ur’ indica anche il leone, provocando un’ambiguità tra felini e canidi che potrebbe avvicinare questi due mostri alla sfera lunare, ancor più dato che l’Uridimmu tiene spesso in mano un bastone con una luna crescente. In realtà, se la più antica menzione della trasformazione dell’uomo in lupo proviene proprio dall’antica Mesopotamia, ed è nel poema di Gilgameš, essa fa riferimento alla sorte di un uomo maledetto da Inanna, mentre non esiste una credenza in un fenomeno ricorrente. Inoltre, fino all’età moderna, non è mai esistito un legame diretto tra la licantropia e la luna dove, talvolta, è appaiato a una figura teriomorfa simile all’Ugallu, chiamata Lutarak e considerata un alter ego di Lulal.

Due ugallu vigilano contro il male da due direzioni diverse, 645-635 a.C.

Uridimmu

L’uridimmu è un altro demone leone.[51] A differenza dell’ugallu, un uomo con la testa di leone, l’uridimmu ha il corpo leonino, eretto in posizione bipede, e la testa umana. Il nome è la forma accadica del sumero uridim, composto da ur, che può denotare sia un cane che un leone, determinando alcune delle ambiguità che affronteremo in seguito, e idim, che significa “folle”, “selvaggio”. UR.IDIM, inoltre, è il nome sumero di una costellazione pressappoco corrispondete a quella greca del lupo (Lupus), da identificare con la creatura mostruosa e dunque da immaginare con le medesime fattezze.

Il nome della costellazione sembra risalire al terzo millennio a.C., ma l’uridimmu appare piuttosto raramente sia nei testi che nelle arti visive, con uno degli esemplari più antichi scolpito su un vaso d’argento iranico in cui regge una mezzaluna inastata, accanto a un kusarikku, l’uomo-bisonte, a metà del II millennio. Dopo il suo inserimento tra i figli di Tiamat e i trofei di Marduk troviamo un incantesimo che richiede di intagliare un uridimmu nel legno di cedro e appenderlo a un anello d’oro, per invocare la protezione di Marduk contro la magia nera; l’incantesimo prevede che Marduk infonda vita nell’uridimmu, in modo che possa svolgere la sua funzione di dispensatore di salute. Da questo si evince che è un custode proprio come l’ugallu, in questo caso protettore delle porte di Marduk e di Ṣarpanītum, sua sposa, funzione che, forse, aveva svolto per altri dèi in epoche precedenti all’apogeo del culto di Marduk.

Uridimmu appare dunque complementare all’ugallu, nella composizione del suo corpo, ed è affine anche nelle funzioni. Mentre ugallu incarna principalmente i giorni tempestosi, uridimmu compare nell’incantesimo di Marduk come un portatore di energia curativa, ma tra le due concezioni sono intercorsi troppi cambiamenti e, soprattutto, il ruolo di uridimmu è chiaramente frutto di una reinvenzione. In molte traduzioni contemporanee, Uridimmu viene reso come “cane selvaggio”, ma non sembra che ci siano ragioni per non identificarle la sua parte bestiale con il leone.

Girtablullû

I girtablullû sono gli uomini scorpione, e sono una delle varietà mostruose più specifiche del panorama mesopotamico.[1] Compaiono anche nell’epopea di Gilgameš, dove si vede che ne esistono sia di maschi che di femmine, e si assiste al loro ruolo: sorvegliare la porta del sole, il monte Mašu (“gemellO”), dalla quale ogni giorno al tramonto esso passa per lasciare la terra e attraversare il mondo infero.

All’origine di questa figura c’è lo scorpione non divinizzato né mostrificato del terzo millennio a.C., privo di componenti umane e chiamato semplicemente gír-tab. Similmente allo scarabeo egizio, esso era considerato svolgere il suo ruolo cosmico tenendo il sole con le sue tenaglie per portarlo dall’altra parte del monte.[2] Dal secondo millennio lo si trova rappresentato con fattezze ibride, le chele trasformate in mani e un volto umano, mentre al suo nome viene aggiunto il suffisso -lullû, che si trova anche negli uomini-pesce kulullû. Nella loro forma più riconoscibile hanno anche delle ali. Ritualmente, i girtablullû sono gli unici mostri di cui le sculture rappresentassero sia la variante maschile che quella femminile.

Riproduzione di un intaglio assiro raffigurante due girtablullû.

Ūmū dabrūtu

Quello degli ūmū dabrūtu è di gran lunga il più problematico dei teratonimi della nostra lista, perché compare soltanto nell’Enuma Eliš. Insieme ai mušmaḫḫū e agli ušumgallu, si tratta di tre mostri che non facevano parte degli elenchi di mostri dei testi rituali sumeri, e che sono stati aggiunti ai figli di Tiamat dell’Enuma Eliš per portare il loro numero a undici. Il nome significa “tempeste violente” o “giorni feroci”, il che li ricollega agli ugallu, i demoni che con la loro testa di leone rappresentano l’azione della tempesta; e infatti Wiggermann include gli ūmū dabrūtu nella voce dedicata agli ugallu, associandoli anche a un altro nome, ūmū samrūtu, nominato in un incantesimo che descrive la sua sconfitta da parte di Ninurta.[1] Ninurta è tipicamente l’uccisore dell’uccello Anzû, anch’esso una creatura dotata di testa di leone per significare la tempesta, viene rappresentato dal secondo millennio a.C. con le fattezze del leone-drago che abbiamo già ricondotto all’ušumgal. Se dunque non si trovano altre menzioni dell’ūmū dabrūtu al di fuori dell’Enuma Eliš, ciò che si può decodificare è che si tratti di un’altra creatura simile al leone-drago, forse con le ali, gli artigli posteriori e la coda da aquila. Alla fine della voce sugli ušmgallu ho espresso la fantasia mitopoietica di considerare Anzû un membro di particolare rilievo della loro famiglia: secondo lo stesso ragionamento, potrebbero essere invece gli ūmū dabrūtu,la stirpe cui appartiene Anzû, proprio in quanto avrebbero la coda aquilina anziché di scorpione degli altri leodragoni. Al di fuori della speculazione fantastica, devo ripetere, questo mostro sembra avere un peso assolutamente minoritario nel panorama teratologico sumero e accadico.

Cilindro assiro risalente al XIV-XII secolo a.C. Solitamente a essere raffigurato in scene di caccia ad animali come le gazzelle è proprio l’uccello Anzû. In mancanza di informazioni precise sugli ūmū dabrūtu, utilizzo qui un’immagine del mostro a cui l’ho associato nell’articolo.

Kulullû

I kulullû sono uomini pesce, e tale è il significato del loro nome, che termina con il suffisso -lullû come quello dei girtablullû; ma la letteratura è molto specifica del definirli uomini con la coda della carpa, che in babilonese si chiama purādu.[1]  Quando si parla di questi mostri acquatici, legati come i laḫmu al dio Ea, è bene stare attenti a non confonderli con un’altra, più conosciuta, varietà di uomo pesce: gli apkallû, i saggi avvolti da un mantello simile a corpo di un pesce, di cui i miti babilonesi raccontano di come abbiano insegnato all’uomo tutte le discipline, fino ad alimentare le moderne teorie ufologiche. La distinzione principale, in termini iconografici, è che gli apkallû sono sempre raffigurati in verticale, hanno volto, braccia e gambe umani e si distinguono perché intorno al busto, come se fosse un vestito, hanno l’aspetto di un grosso pesce la cui testa sormonta quella dell’uomo come se si trattasse di un cappuccio. I kulullû, che non a caso Wiggermann chiama “centauri-pesce”, sono invece più simili ai tritoni dell’arte occidentale, con corpo umano fino alla vita e una coda di pesce disposta orizzontalmente dalla vita in giù. Più antica di questa è la rappresentazione che ne fa carpe con la testa umana, e solo in un secondo momento anche le braccia: passaggi del processo di distinzione della carpa di significato sacro da quella comune. Raffigurato spesso insieme al suḫurmašu, il capricorno – che non figura tra gli undici figli di Tiamat – in qualità di servitore di Ea, talvolta il kulullû tiene i vasi dai quali versa l’acqua, ed è dunque un’altra manifestazione dell’elemento dell’acqua e del suo corso.

Dal kulullû si distingue la kuliltu, l’esemplare femminile, in quanto anche di questo mostro, come dello scorpione girtablullû, sono contemplate versioni di entrambi i sessi. Entrambi compaiono nella letteratura rituale e nei testi per gli esorcismi, cosa che significa che, a differenza dei saggi apkallû, gli uomini e le donne carpa erano concepiti come mostri feroci così come i loro fratelli.


[1] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 182-183.

Kulullû in un bassorilievo del palazzo di re Sargon II, 721-705 a.C.
Sigillo che raffigura un kulullû incoronato in una scena di caccia al leone.

Kusarikku

I kusarikku, “uomini bisonte”, compaiono per ultimi nella lista dei figli di Tiamat. Sono i minotauri della tradizione mesopotamica: ibridi tra l’uomo e il bovino, bipedi con il volto umano, orecchie da animale, un busto muscoloso con braccia e mani e, sotto la vita, il bacino, la coda e le zampe di un bisonte. Dall’età paleo-babilonese (1894-1595 a.C.) il kusarikku è fornito anche di un paio di corna che non sono l’elemento naturale proveniente dai bovini, ma l’attributo visivo che identifica le divinità.

Kusarikku è un prestito dell’accadico nella lingua sumera, che usa la parola alim (“bufalo”) o gud-alim (dove gud significa “toro”) per indicare il bisonte. Sembra che già nel terzo millennio a.C. fosse una convenzione artistica raffigurare il bisonte con un volto umano anche quando si trattava dell’animale naturale, e per questo accanto al kusarikku esiste la figura del bisonte con la faccia antropomorfa, chiamato con gli stessi nomi del bisonte normale: originariamente si trattava dello stesso simbolo, ma in seguito vennero distinti. La differenza principale è che il kusarikku è rappresentato sempre in posizione bipede.

Il simbolismo del kusarikku è quello del sole, in modo simile al girtablullû. Mentre l’uomo scorpione nasce dall’immagine sacra dell’aracnide che usa le sue tenaglie per spostare il sole oltre le montagne che segnano il confine tra il giorno e la notte, il bisonte rappresenta le montagne stesse nel loro ruolo di marcatrici. L’ipotesi di Wiggermann è che l’associazione con il sole derivi dal fatto che i bisonti dimoravano nei territori collinari disabitati della bassa Mesopotamia, dove si diceva che viaggiasse soltanto il sole. Tuttavia, mentre il bisonte era concepito come un animale leale, e la sua grande massa contro l’orizzonte letta come un doppione della montagna stessa, l’uomo bisonte kusarikku era concepito come un avversario del sole stesso, un mostro combattivo al pari dei suoi fratelli. Come Anzû, il mušmaḫ e molti altri, anche un kusarikku viene sconfitto dal dio Ninurta in una delle sue imprese, e nonostante la sua natura palesemente terrestre lo scontro viene combattuto, stando ai testi sumeri, nel mare, indicando una fase embrionale del racconto mitologico che avrebbe reso i mostri progenie di Tiamat. Dal periodo babilonese in poi è invece un trofeo di Marduk.

Come l’ugallu, il kusarikku viene raffigurato anche mentre tiene aperte le porte e regge l’emblema solare, indicando così la sua funzione. A volte si accompagna proprio con il demone leontocefalo, o con l’eroe nudo laḫmu. Altre volte combatte contro gli animali feroci, o mostri come il leone-drago, ma è anche, proprio come quest’ultimo, un simbolo apotropaico che si usa negli amuleti per scacciare gli spiriti maligni. C’è addirittura il testo di un’invocazione babilonese in cui è descritta la scena di un bambino che piange e sveglia così il kusarikku che dimora nella casa come guardiano.

Sappiamo per certo che il kusarikku è una costellazione, attestata già nel periodo babilonese antico e corrispondente a una parte di quello che noi chiamiamo Centauro. Viene menzionata nella Preghiera agli Dei della Notte.

Due Kusarikku insieme a due Ugallu, Museo delle Civiltà Anatoliche, Ankara.

[1] Wiggermann, Protective Spirits, p. 172.


[1] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 180-181.

[2] Wiggermann, Protective Spirits, p. 149.


[1] La citazione proviene da J. Bottero e S.N. Kramer, Uomini e dei della Mesopotamia, Milano: Einaudi, 1992, pp. 648-699.

[2] Oltre alla traduzione italiana di Bottero e Kramer, mi sono avvalso dell’edizione inglese Speiser, Ephraim Avigdor, ed. and trans., “The Creation Epic”, in James B. Pritchard, ed., Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, Princeton, Princeton University Press, 1969, pp. 60-72; e dei commenti di Heidel, Alexander, ed. and trans., The Babylonian Genesis, Chicago, University of Chicago Press, 1951, pp. 1-60; a proposito della data di composizione del poema, si veda ivi pp. 13-14.

[3] Su Tiamat si veda Alster, B, “Tiamat”, in Karel van der Toorn, Bob Becking and Pieter W. van der Horst, eds., Dictionary of Deities and Demons in the Bible, Leiden: Brill, 1999, pp. 867-869; Jacobsen, Thorkild, “The Battle between Marduk and Tiamat”, Journal of the American Oriental Society, 88 (1968), pp. 104-08; Wiggermann, Mesopotamian Protective Spirits, p. 155 e 163.

[4] Fondamentale per lo studio di questo tema è Wiggermann, Frans A.M., Mesopotamian Protective Spirits: The Ritual Texts, Groningen: STYX Publications, 1992. All’analisi e alla ricostruzione del profilo individuale dei mostri è dedicata un’intera sezione del libro, pp. 143-188.

[5] Non mi potrò dilungare molto su questa prospettiva, ma la sua esposizione deriva dal lavoro di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend in Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, edizione italiana a cura di Alessandro Passi, Milano: Adelphi, 1983, alla base di molti articoli precedenti.

[6] Quarta tavoletta dell’Enuma Eliš.

[7] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 148-150.

[8] Jacobsen,

[9] Green 1992, pp. 227-228.

[10] Si veda a proposito Grantham 2002.

[11] Ibidem.

[12] Sandars 1986, p. 102

[13] Van Buren, p. 9.

[14] F.A.M. Wiggermann, “Transtigridian Snake God”, in I.L. Finkel, M.J. Geller, Sumerian Gods and Their Representations, STYX Publications, Groningen, 1994, pp. 33-55.

[15] Lambert, Wilfred G., Babylonian creation myths, Winona Lake, Indiana: Eisenbrauns, 2013.

[16] Rimando a due articoli sull’argomento: Jones, Scott G., “Lions, Serpents, and Lion-Serpents in Job 28:8 and Beyond”, Journal of Biblical Literature, 130 (2011), pp. 663-86; Lewis, Theodore J., “CT 13.33-34 and Ezekiel 32: Lion-Dragon Myths Author(s)”, in Journal of the American Oriental Society, 116 (1996), pp. 28-47.

[17] Il processo è ricostruito in Wiggermann, “mušhuššu”, pp. 457-59.

[18] Heuzey, p. 95 ff.

[19] Van Buren, E. Douglas, “Entwined Serpents”, in Archiv Für Orientforschung, vol. 10, 1935, pp. 53–65.

[20] Wiggermann, “mušhuššu”, p. 458.

[21] Una traduzione del poema si trova in Heidel 1951, p. 141-43. Il Labbu è identificato con il mušḫuššu in Wiggermann, “Tišpak, his seal and the dragon mušhuššu”, p. 120.

[22] Wiggermann, “mušhuššu”, pp. 458-59. Heuzey considers Marduk and Nabu to be represented by two slightly different mušhuššu, identifiable thanks to the symbol of the spear for the former and the tablets for the latter, pp. 97-99.

[23] Ivi p. 35-41.

[24] Wiggermann, Mesopotamian Protective Spirits, pp. 168-69

[25] “Transtigridian Snake God”, pp. 33-55, mušḫuššu pp. 460-61.

[26] Wiggermann, p. 145.

[27] Van Buren, p. 20.

[28] Van Buren, p. 18.

[29] Van Buren, 18-19.

[30] Il primo a proporlo fu G. R. Levy, “The Oriental Origin of Herakles”, in J HS. LIV (1934), pp. 40-53, text-fig. 1, p. II. Si veda anche Bisi, Anna Maria, “L’idra. Antecedenti figurative orientali di un mito greco”, in Cahiers de Byrsa, 10 (1965), pp. 21-42.

[31] Muroi, Kazuro, “The Origin of the Mystical Number Seven in Mesopotamian Culture: Division by Seven in the Sexagesimal Number System”, in arXiv:1407.6246.

[32] Ibidem.

[33] Rendsburg, Gary A., “UT 68 and the Tell Asmar Seal”, Orientalia, 53 (1984), pp. 448-52.

[34] Beckman 1982.

[35] Hermann 1999.

[36] Stoltz p. 739.

[37] Beckman 1982.

[38] Villani 2006.

[39] Wiggerman, p. 167.

[40] Van Buren, p. 9 e p. 17.

[41] Wiggermann, Protective spirits, p. 187.

[42] Ibidem.

[43] Ibidem.

[44] Van Buren, p. 23.

[45] Jones, Scott G., “Lions, Serpents, and Lion-Serpents in Job 28:8 and Beyond”, Journal of Biblical Literature, 130 (2011), pp. 663-686.

[46] Van Buren, p. 23.

[47] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 164-166.

[48] Per leggere il poema si veda Lambert, Wilfred G., and Alan R. Millard, Atrahasis: The Babylonian Story of the Flood, London: Eisenbrauns, 1999.

[49] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 169-172.

[50] Glenn, Anna and Peterson, Jeremiah, “The Lulal širgida Composition CBS 12590 (HAV 5, pl. 7, VIII)”, Altorientalische Forschungen, 45 (2018), 2, pp. 168-81.

[51] Wiggermann, Protective Spirits, pp. 172-174.

Raccolta dei mostri iconografici da F.M. Wiggermann, Mesopotamian Protective Spirits.

Bibliografia

de Santillana, Giorgio e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, edizione italiana a cura di Alessandro Passi, Milano: Adelphi, 1983.

Glenn, Anna and Peterson, Jeremiah, “The Lulal širgida Composition CBS 12590 (HAV 5, pl. 7, VIII)”, Altorientalische Forschungen, 45 (2018), 2, pp. 168-81.

Gunkel, Hermann, Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit: eine religiongeschichtliche Untersuchung über Gen 1 und Ap Joh 12, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1985.

Halloran, John A., Sumerian Lexicon. A Dictionary Guide to Ancient Sumerian Language, Los Angeles: Logogram, 2006.

Heuzey, Léon, “Les Deux Dragons Sacrés de Babylone et Leur Prototype Chaldéen”, Revue d’Assyriologie et d’archéologie orientale, 6 (1906), pp. 95-104.

Jacobsen, Thorkild, The Harps That Once…Sumerian Poetry in Translation, New Haven, Yale University Press, 1987.

Jacobsen, Thorkild, The Treasures of Darkness. A History of Mesopotamian Religion, New Haven, Yale University Press, 1976.

Jacobsen, Thorkild. “The Battle between Marduk and Tiamat”, Journal of the American Oriental Society, 88 (1968), pp. 104-08.

Jones, Scott G., “Lions, Serpents, and Lion-Serpents in Job 28:8 and Beyond”, Journal of Biblical Literature, 130 (2011), pp. 663-86.

Lambert, Wilfred G., and Alan R. Millard, Atrahasis: The Babylonian Story of the Flood, London: Eisenbrauns, 1999.

Lambert, Wilfred G., Babylonian creation myths, Winona Lake, Indiana: Eisenbrauns, 2013.

Levy, G. R., “The Oriental Origin of Herakles”, in J HS. LIV (1934), pp. 40-53, text-fig. 1, p. II. Si veda anche Bisi, Anna Maria, “L’idra. Antecedenti figurative orientali di un mito greco”, in Cahiers de Byrsa, 10 (1965), pp. 21-42.

Lewis, Theodore J., “CT 13.33-34 and Ezekiel 32: Lion-Dragon Myths Author(s)”, in Journal of the American Oriental Society, 116 (1996), pp. 28-47.

Muroi, Kazuro, “The Origin of the Mystical Number Seven in Mesopotamian Culture: Division by Seven in the Sexagesimal Number System”, in arXiv:1407.6246.

Rendsburg, Gary A., “UT 68 and the Tell Asmar Seal”, Orientalia, 53 (1984), pp. 448-52.

Thompson, R. Campbell, The devils and evil spirits of Babylonia, 2 voll., Lunzac, Londra, 1903-1904.

Van Buren, E. Douglas, “Entwined Serpents”, in Archiv Für Orientforschung, vol. 10, 1935, pp. 53–65.

Van Buren, E. Douglas, “The Dragon in Ancient Mesopotamia”, Orientalia, 15 (1946), pp. 1-45.

Wiggermann, Frans A. M., “Tišpak, his seal, and the dragon mušḫuššu”, in O.M. Cheax, H.H. Curvers & P.M.M.G. Akkermans, eds., To the Euphrates and Beyond: Archaeological studies in honour of Maurits N. van Loon, Rotterdam, Brookfield, 1989, pp. 117-133.

Wiggermann, Frans A.M., “mušhuššu”, in Erich Ebeling, Erich, Ernst F. Weidner, eds., Reallexikon der Assyriologie vol 8, Berlin, 2019, pp. 455-462.

Wiggermann, Frans A.M., “Transtigridian Snake God” in Irving L. Finkel, Markham J. Geller, eds., Sumerian Gods and Their Representations, Groningen: STYX Publications, 1994, pp. 33-55.

Wiggermann, Frans A.M., Mesopotamian Protective Spirits: The Ritual Texts, Groningen: STYX Publications, 1992.

Lascia un commento